Roma è quello che succede quando non si butta via niente.
Andy Warhol (?)

Ogni normale città moderna tende a esistere nel presente

Cioè ogni insieme urbano assorbe e metabolizza incessantemente i suoi stati precedenti, distruggendo, modificando, conservando, ricostruendo il proprio corpo fisico, nella costante tensione verso un’irraggiungibile compatibilità tra assetto del presente, conservazione del passato e trasformazione per il futuro.

Ogni città normale si ascolta con attenzione, si osserva, si analizza, in un processo di modificazione della sua forma solida per adeguarsi al ventaglio delle forme ipotetiche.

Il fluire incontenibile del mutamento, con le sue fasi di diversa accelerazione, con i suoi scarti e le sue incertezze, rimette in discussione, ogni volta sostanzialmente da capo, il presente col suo carico di passato e di futuro.

Ogni città lavora su sé stessa ridefinendosi costantemente secondo le due opposte frecce del “divenire” e del “trascorrere” (Riegl), cioè del passato come memoria e del futuro come progetto e programma per il presente. Il presente di ogni città è come un’erma a due facce i cui due sguardi rivolti contemporaneamente verso il passato e verso il futuro, sostanziano il lavoro dell’oggi e gli conferiscono un senso. 

Secondo questa immagine, il presente di una città è in effetti una trattativa, una negoziazione costantemente in corso, i cui termini vengono continuamente riformulati, tra le due principali istanze della conservazione e della trasformazione, nonché tra la cultura delle forme e quella delle riforme, cioè tra come costruire la città e come costruire la società.

Tutto ciò che nella città raggiunge una forma, cui viene finalmente conferito un assetto, nel momento stesso in cui si compie il processo di formalizzazione, diviene per ciò stesso un intralcio alla fluidità di cui ha invece bisogno il capitale per mettere in atto la sua continua trasformazione. 

Vi è una città, credo unica al mondo, per la quale lo sguardo verso il passato si è reso molto potente e, se non è stato il solo attivo, ha reso attiva una sorta di prolungata e sognante soggezione contemplativa verso ciò che è stato

Ma ciò che, non ostante tutto, riesce a permanere, acquisisce uno status differente che lo estrae dalla dialettica della modificazione e, spesso al di là delle sue oggettive ragioni di esistere, ne legittima la permanenza sine die.

Vi è una città, credo unica al mondo, per la quale lo sguardo verso il passato si è reso molto potente e, se non è stato il solo attivo, ha reso attiva una sorta di prolungata e sognante soggezione contemplativa verso ciò che è stato. 

Tutto ciò che attiene alla memoria di questa città, Roma, è visto esclusivamente come qualcosa da conservare, intatto e per sempre. Quello rivolto al trascorso è uno sguardo quasi risentito, nel suo rimproverare alla vita la deplorevole tendenza a continuare, nonostante tutto. L’erma conservatrice della memoria ha assunto col tempo dimensioni ipertrofiche e ha condizionato con la sua ineludibile presenza, lo sguardo rivolto al futuro, che ha rischiato e tutt’ora rischia, di disseccarsi. 

Roma sembra da tempo scaduta nel compiacimento commerciale del suo passato, allo stesso modo in cui un aristocratico bastardo e impoverito si fa vanto dell’importanza e dell’antichità dei suoi ascendenti, ma fa pagare per mostrare la sua residenza. 

La metafora freudiana secondo la quale nel cervello umano persistono stratificate – come le stratificazioni di Roma – le memorie delle esperienze trascorse che ancora agiscono sul comportamento presente e sulle sue patologie, può, rovesciata, darci un’immagine di Roma come di un cervello massacrato dalle sue memorie, incapace di liberarsene per vivere e valutare, serenamente e correttamente, il da farsi nel presente.

Così, per la sensibilità novecentesca, Roma dentro le Mura è divenuta un’icona irriducibile, indescrivibile, misteriosa, che ormai consideriamo come fosse sempre esistita, mentre è anch’essa frutto di continue modificazioni, imitazioni, ibridazioni, distruzioni. 

Un mistero che si costruisce, sempre diversamente, di luogo in luogo, come a Piazza del Quirinale, che un tempo si chiamava Montecavallo, dove torno spesso e mi soffermo in questo set di cose che restano in silenzio tra loro.

Niente rimandi, dialoghi, assonanze. Niente in sincrono, nessuna empatia tra gli oggetti presenti sulla piattaforma che chiamiamo piazza. Ogni cosa è scrupolosamente divisa, separata dalle altre: autonome esistenze raggruppate qui dalla volontà di modificazione del potere.

Vedi esistere queste cose sotto una luce strana, radente, occidentale, una luce di un pomeriggio inoltrato, dunque rosa e dorata di tramonto. 

La stessa luminescenza di una marina di Claude Lorrain, penso. Pochi minuti di incantamento, senti le voci abbassarsi. La poca gente affacciata alla balaustra ti accorgi che bisbiglia, si volta verso i Cavalli, per osservarli ancora e poi di nuovo lo sguardo gettato a occidente, al di là dei tetti e del profilo del Gianicolo, verso il crepuscolo in cerca della linea del mare, che non si vede.

Roma questi cavalli sa solo che esistono, che sono qui da sempre, che hanno dato il nome a questo spazio, Montecavallo appunto. OPUS FIDIAE, così sul piedistallo è scritto in alfabeto severo. OPUS FIDIAE, i cavalli, opera di Fidia.

Qualcuno deve pure averli scolpiti e trascinati quassù seguendo un impulso poetico, ingegnandoli in artificio estatico coi Dioscuri nel gesto di trattenerne i musi con una briglia ormai assente. Le linee attiche delle figure, pure erose dal tempo e dall’aria inquinata, si impongono su qualsiasi altro oggetto, grande o piccolo, vicino o lontano che sia. 

Forse è vero che la luce svela le cose, le precisa, le porge all’occhio, dà loro un colore. Ma non qui, ne sono sicuro. Qui la faccenda è diversa, più complicata, difficile da capire, da accettare. 

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Di solito sono gli oggetti ad essere passivamente delineati, svelati dalla luce. Ma se immagini un buio primigenio, nero come la pece, puoi pensarlo abitato da qualsiasi cosa finché una luce non ne esplori la polpa e lo disossi delle entità presenti.

A Montecavallo il rapporto si inverte ed è la luce ad essere svelata dalle forme bianche del gruppo. Sculture e oggetti così come lo Stern li mise in ordine secondo ragione neo-classica, quando ogni manifestazione d’ordine vitale andava messa in scena secondo quel paradigma estetico. Qui si attiva di nuovo la lezione della precisione, che parla solo a pochi maniaci già predisposti, per motivi misteriosi, all’ascolto. 

Un bacile antico in porfido, il basamento in marmo, un piccolo obelisco, e i lombi delle quattro Statue che danno forma alle bave informi di luce rossa, patetica, che cola a quest’ora da ovest, dietro la sagoma scura del Gianicolo. La stessa luce che ti immobilizza lo sguardo e ti toglie la parola, mentre resti in silenzio addossato al parapetto.

Sopra questa piattaforma persa nel mistero d’Occidente, Roma conferisce a una sera d’estate la forma luminosa di cavalieri e cavalli freddati in un gesto, una postura, enfatica, eterna, basilare. 

Ma per quanto ti sia lasciato invadere dalla suggestione di oggetti esistenti prima della venuta della luce stessa, anche qui ciò che è illuminato sta al sole come una lastra di metallo al bulino: si lascia incidere e svelare all’osservatore ogni volta con minuzia maniacale, sconcertante.

Forse Stendhal intendeva questo nel dire di Piazza di Montecavallo come della più bella della città. Forse parlava della stupefazione che sopravviene quando le cose ci appaiono, come qui, improvvisamente e indebitamente certe e lontane. Forse Stendhal scambiava ciò che è certo per ciò che è bello, ma non è così, perché nulla è certo mentre tutto, alle giuste condizioni, può essere bello per noi.

Questa capsula di pietra sfondata verso la città, ti dice silenziosa della profondità del tempo, dell’inesplicabilità dello spazio, senza naturalmente spiegarti nulla, se non che Roma è il prodotto di poteri immensi e freddi, ossificati nelle concrezioni dell’architettura e della scultura, nelle forme nella pittura, descritti nelle parole incise dappertutto.

Roma come un corpo malato, eppure sano, nella sua determinazione a persistere al di là di tutto, oltre ogni vita degli uomini che l’abitano e l’hanno abitata e curata e trasformata via via

Una città soverchiante, troppo solida e intoccabile per sentirla propria, come un grande scoglio immobile nel tempo e tutto consunto, istoriato, marcato da segni ormai considerati incancellabili, sovrapposti più e più volte. E una schiera triste di chierici che si adopera per conservarli, restaurarli, decifrarli, non con amore, ma con una soggezione coatta, nella convinzione non dimostrata che in essi risieda un principio assoluto di autorità che li rende intoccabili. Mentre sono solo casuali avanzi storici di una città durata troppo a lungo. 

Roma come un corpo malato, eppure sano, nella sua determinazione a persistere al di là di tutto, oltre ogni vita degli uomini che l’abitano e l’hanno abitata e curata e trasformata via via, ma sempre alla fine nei dettagli.

Roma come testo, come tessuto inestricabile di entità sovrapposte, ricalcate una sull’altra, dove i segni alti e orgogliosi delle grandi fabbriche sono qua e là corrosi e contraddetti dai segni bassi e noncuranti della vita che vi si è aggrappata, come appunto a rocce.

La cupa melanconia, grigia e sporca di Porta Maggiore, osservata dalla ferrovia entrando a Termini e poi la massa del Ninfeo degli Horti Liciniani: nessuna città al mondo ti accoglie così, sfregiata e divorata dal passato. 

Il continuo mormorio mortale di un’immensa memoria frammentata e tuttavia sorda, esigente, in massima parte persa, impedisce alla città del Novecento di pensare lucidamente sé stessa, nel basso continuo di un’obiezione narcotizzante, che inquina e spezza ogni idea e ogni iniziativa. 

Questa dea psicofaga, mangiatrice di anime, ha i suoi sacerdoti e le sue sacerdotesse che,  senz’alcuna bellezza o eleganza, si aggirano tra noi in incognito, pronti a insorgere e a mettere all’indice ogni tentativo, anche il più timido e autocensurato, di ribellione al diktat mortale della memoria. Così la città vive, succube dell’autorità usurpata del passato, come sotto un regime totalitario dove ogni obiezione, anche la più sensata, è eresia.

A Roma il passato è una malattia genetica del presente che ne deforma lo sviluppo nel futuro: ogni possibile domani porta con sé questo peso insopportabile. 

Così ogni progetto nasce esitante, affaticato, sdutto, privo di quella limpidezza che altrove fa la bellezza spietata della città moderna. 

Gli artisti e gli architetti del Novecento romano, sfregiato anche dal fascismo, perdono la capacità – fondamentale per essere accolti e riconosciuti nella modernità – di recidere i legami col passato, di farsene beffe, di ignorarlo e sfregiarlo, per costruire l’arte e l’architettura su basi nuove e diverse, labili e sottili come altrove vogliono e ottengono i tempi del moderno.

Così le affermazioni recise e taglienti del modernismo più agguerrito e lucido vi si impastano compromettendosi col passato o, peggio, scimmiottandolo, blandendolo, citandolo, ammantandosene per trarne una legittimità fasulla, nell’incapacità, alla fine, di comprendere la contemporaneità per affermarvi i propri segni. 

La bellezza della città si risolve in sordida mestizia: non solo stratificazione, ma più spesso intrusione del trascorso nel divenire, a formare un impasto perennemente malato e parassitato di antico

E noi siamo ancora qui, schiacciati sotto la zampa pesante e compiaciuta della città, il respiro mozzo privo di quell’ampiezza che potrebbe nutrire i nostri tessuti mentali e dargli la capacità di pensare e immaginare le cose oltre la città, nel territorio libero di un futuro che non riusciamo a vedere. 

La bellezza della città si risolve in sordida mestizia: non solo stratificazione, ma più spesso intrusione del trascorso nel divenire, a formare un impasto perennemente malato e parassitato di antico, nell’auto-inganno ridicolo di essere ancora caput mundi, mentre da almeno due secoli e mezzo qui quasi tutto è solo provincia. Roma non è nostra, ma è ancora degli uomini che l’hanno costruita prima di noi, appartiene agli imperatori e ai papi, ai cardinali e ai patrizi, a Mussolini persino, soggetti privi di quel rispetto reverenziale che pervade l’oggi, che l’hanno modellata e modificata secondo il loro sentimento o capriccio, facendone un’immensa icona del potere in tutte le sue diverse e possibili declinazioni.

Questo è il retaggio, il lascito: è qualcosa che non ci appartiene veramente e che tuttavia adoriamo contro il nostro stesso naturale impulso di uomini all’appropriazione, alla modificazione, alla distruzione. Se non si fosse sancita l’immodificabilità architettonica e urbana dell’intero corpus residuale dell’antico – a sua volta distrutto modificato saccheggiato sfregiato infinite volte – la Roma che amiamo e che diamo per scontata esisterebbe solo nelle sue emergenze monumentali e tutto il resto sarebbe stato sostituito con edifici moderni, magari modernamente sintetizzanti stili precedenti. Così oggi l’antico non può invecchiare e morire, il moderno non può nascere e, più o meno legittimamente, esistere. Dal Secondo Dopoguerra a oggi, nell’oscillazione tra incanto e ripulsa di sé, tra soggezione dell’antico e disprezzo del presente – e non ostanti i numerosi esperimenti concreti di configurazione di nuovi modelli di città – Roma non è riuscita a determinarsi, se non nel furore vitale dell’abusivismo o nella slombata rassegnazione dei modelli cetomedioidi. Tra questi due poli, quasi niente.