Adesso che siamo al quinto libro di saggi in due anni (tre di taglio divulgativo, una monografia accademica, un breviario per young adult con prefazione di Jonathan Bazzi, e ho escluso dal computo, se non ho contato male, almeno tre curatele), la prima domanda da farsi su Alessandro Giammei e il suo fresco di stampa Parlare fra maschi. Stare insieme dentro & fuori gli stereotipi di genere (Einaudi, 2025), mi pare la seguente: che sia arrivato il momento di prenderlo sul serio? 

La questione della maschilità alla base di Parlare fra maschi è cruciale per decifrare l’inconscio politico del contemporaneo. Benché in questo libro sia affrontata dalla specola di un profilo ristretto, molto autobiografico (quello di un quasi quarantenne cresciuto a Roma Sud, dunque in una periferia dell’Occidente, ma non alla periferia dell’Occidente: e perciò esentato dall’affrontare gli incroci fra l’identità di genere, problemi economici, discriminazioni razziali e di classe eccetera), la crisi del maschio è indicata giustamente nelle conclusioni come «il terreno d’indagine più interessante dell’odierna stagione politica». 

Resta da capire se le parole di Giammei siano all’altezza di una sfida del genere. Parlare fra maschi inizia chiarendo con molta onestà cosa non è («Non è una lezione, non è un manuale. Non è nemmeno un saggio, a dire il vero»). I problemi vengono quando bisogna definire che cosa il libro sia. Viene descritto come «un esercizio di autocoscienza di genere», un «libro personale» che interroga «il proprio privato per misurarlo con quello degli altri, viventi e vissuti». Più prosaicamente, è la raccolta, senza troppe specifiche, di brevi articoli pubblicati su una rubrica del quotidiano «Domani», a loro volta rivisti per la pubblicazione in volume con una manciata di aggiornamenti e passaggi inediti. 

Il problema di questo presunto saggismo è uno solo, ma investe l’insieme dell’opera. Se cominciamo dalla fine, gli auspici in chiusa dei capitoli sono, a grattare la superficie, appelli di puro buonsenso, di elegante enfasi e garbato vuoto

Ne fanno fede due aspetti. Da un lato, il tono è quello del giornalismo più frivolo, in cui affermazioni brillanti vengono lanciate con la nonchalance di chi sa di non dover perdere tempo con la fatica della dimostrazione. Dopotutto, si sa, sul giornale lo spazio manca (ma in un volume, in teoria, no). Forse è per questo che si scivola volentieri in fanfare d’elogio e osanna smaccati, nello stile delle presentazioni con cui il giornalista David Parenzo introduce gli ospiti nel circo radiofonico de «La Zanzara»: ma lì, più l’invitato si prende sul serio, più l’enfasi del conduttore ne rivela parodicamente la cialtroneria intellettuale; Giammei, sembra invece credere a quello che dice. Parrebbe ironico ma non lo è, mentre affastella incisi da Instagram: «Nell’ultimo, struggentemente edipico film di Emanuele Crialese», «Nelle entusiasmanti pagine anni Settanta di Sputiamo su Hegel, capolavoro delle meditazioni di lotta in seno al leggendario collettivo di Rivolta Femminile», «Noether me la immagino un po’ come Chiara Valerio, perché pare che parlasse a velocità supersonica: al ritmo dei suoi fulminei pensieri», «Che maestro di femminismo queer che era Leopardi!». Dall’altro lato,

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