– Dolcetto o scherzetto?
Il gruppo un po’ su di giri che si era presentato alla porta lo conoscevo bene. Erano le nostre nuove vicine di casa. Studentesse sui vent’anni, capelli rigogliosi che ricoprivano parte del viso e dell’imbarazzo. Le avevo aiutate con la caldaia, pochi giorni prima. Il loro appartamento era fornito di mobili da comprensorio universitario. Roba da quattro soldi, pareti spoglie, il resto buttato lì alla rinfusa. Le ragazze mi avevano seguito come se fossi stato una specie di guru. Dopo aver sistemato la caldaia, avevo detto loro che potevano usare la nostra rimessa per metterci le biciclette.
Le ragazze avevano sgranato gli occhi. – Davvero?
– È tutta vostra.
Avevo pensato alla bicicletta rimasta ferma nella rastrelliera. A tutte le volte che avevo usato la brugola per modificare l’altezza del sellino e del manubrio.
– Dolcetto o scherzetto? – insisterono, con il trucco marcato e i cappelli da strega.
Volevano godersi Halloween in quel modo leggero che si può avere solo a vent’anni.
Pensai in fretta e lo proposi. – Perché non entrate due minuti?
Le ragazze si guardarono tra loro, un palpitante tutt’uno. Adesso sembrava che le cose si fossero rovesciate tra noi, e che fossi io a volergli fare “dolcetto o scherzetto?”.
– Mia moglie sarà contenta di conoscervi, – aggiunsi.
Quell’ultima affermazione vinse la diffidenza.
Mia moglie fu incantevole con le ragazze. Le accolse a braccia aperte. Poggiò il lavoro a maglia sulla poltrona e andò subito a preparare il tè. Volle sapere tutto per filo e per segno: età e provenienza, che facoltà avevano scelto e perché, quale sarebbe stato il prossimo esame e quando. Le ragazze rispondevano a turno. Erano entusiaste di rispondere e spesso le loro voci acerbe si sovrapponevano. Ci accomodammo in soggiorno a bere il tè. Io e mia moglie da una parte e le ragazze dall’altra, sul divano.
– Metteranno le biciclette nella nostra rimessa, – dissi.
– Mi sembra un’ottima idea. Avete già le biciclette?
Mia moglie ci sapeva proprio fare. A quella domanda seguirono battute e sorrisi. Ogni ragazza raccontò della sua bicicletta. Ce n’era una coi capelli neri come la pece. Un’altra ricciolina con una spruzzata di lentiggini sul naso. E un’altra ancora più magra e pallida.
Si vedeva che si sentivano spaesate, ma l’aneddotica ciclistica finì per rilassarle. Tenevano i panieri di Halloween in grembo.
Finito il tè e la conversazione, le ragazze si alzarono senza sapere bene cosa fare: se rimanere o congedarsi. Il risultato fu che cominciarono a gironzolare per casa, andando dietro a mia moglie.
– Dietro questa porta cosa c’è? – domandò una di loro.
Una dopo l’altra si affacciarono nella stanza. Feci un segno con la mano per incitarle ad accomodarsi. Si misero sedute sul lettino singolo nello stesso ordine in cui si erano messe sul divano. C’erano ancora le penne e i blocchi sulla scrivania, e un paio di scarpe col tacco sopra una scatola.
Mia moglie ci raggiunse quasi subito, perché io non sapevo più che dire. Mi dette un’occhiata che sulle prime non seppi interpretare. Ma c’era gioia nei suoi occhi, di questo ero sicuro.
– Prendete quello che vi pare, – dissi.
Le ragazze rimasero sedute. Quasi certamente ognuna di loro aveva già visto qualcosa che le sarebbe piaciuto, ma nessuna si azzardò a dire niente.
– Dolcetto o scherzetto, no? – insistei. – Avanti. C’è tanta di quella roba qui dentro.
Per prima cosa tirai giù dagli scaffali i peluche. Poi mia moglie aprì l’armadio. Per un momento pensai di essere nel camerino di una grande boutique. Le ragazze impazzirono. Cominciarono a staccare dalle grucce vestiti e giacche e camicette. Confrontavano le misure: quello che non andava bene a una andava bene all’altra. Usavano la specchiera dell’armadio.
– Ma avete una figlia? – chiesero.
– La roba era di nostra figlia, sì.
La frenesia delle ragazze si tramutò subito in un dubbio. Smisero perfino di passarsi i vestiti.
Abbozzai un sorriso. – Dopo la laurea si è dovuta trasferire.
Le ragazze vollero saperne di più. E stavolta toccò a mia moglie spiegare per filo e per segno di nostra figlia: quanti anni aveva, in che città si era dovuta trasferire, con quale votazione si era laureata. Vollero perfino sapere se era felice. Dopo una pausa leggermente troppo lunga mia moglie rispose di sì.
– E non li vuole più questi vestiti?
– Ormai porta solo tailleur.
– Davvero? Allora possiamo prenderli?
– Ma certo. Anche i peluche.
– Non sono ricordi d’infanzia?
– Li ha sempre odiati. Più che altro sono ricordi dei suoi genitori.
A poco a poco le ragazze ripresero coraggio. Infilarono le cinture nei pantaloni e i braccialetti nei polsi. Liberarono i buchi dai vecchi orecchini e chiesero a gran voce un calza-scarpe.
Mettemmo le cose che le ragazze avevano scelto dentro alcune buste di plastica, e le accatastammo in corridoio. Quando anche l’ultimo capo d’abbigliamento fu preso in esame, la sera era scesa da un pezzo. – Forse è meglio andare, dissero le ragazze. – Non vogliamo disturbare troppo.
– Nessun disturbo.
– Dobbiamo andare a una festa, – ammisero. – Forse è tardi per davvero.
Mia moglie, che fino a quel momento mi era sembrata padrona della situazione, ebbe un piccolo sussulto. – Rimanete ancora due minuti. Non abbiamo ancora visto quei cassetti.
Le ragazze si voltarono in direzione del mobile che mia moglie stava indicando con l’indice. Sapevo che là dentro c’era la biancheria. Cominciarono con i collant. Una delle ragazze mi rivolse uno sguardo più insistito delle altre. Socchiusi la porta e mi ritrovai in corridoio insieme alle buste di plastica. Non sapevo più come comportarmi. Andai in soggiorno, dove avevamo bevuto il tè. Mi affacciai alla finestra. Sotto c’era la rimessa e la rastrelliera. E quell’unica bicicletta nell’oscurità accentuata dal primo freddo. Tornai indietro. Incominciai a origliare.
– Sono tutti coordinati, – spiegava mia moglie.
– Queste con cosa vanno?
– Con questo. È a balconcino, vedi?
Sentivo le loro voci e un frusciare di stoffe.
– Guardate questa sottoveste di seta, – disse a un certo punto mia moglie.
– È bella. Però sono indumenti troppo personali, troppo intimi.
– Ma no. Meglio a voi che in un cassetto.
Accostai l’orecchio alla porta per sentire meglio. Mia moglie tirò fuori tutto quel che rimaneva.
Una delle ragazze se ne uscì con una risata nervosa. – Non viene mai a trovarvi vostra figlia?
– È difficile, ma viene. Certo che viene. Viene ogni volta che chiudo gli occhi.