Qualche giorno fa ho scritto sul Post un articolo contro la cosiddetta “terza missione” dell’università: la quale dovrebbe essere, secondo questa nuova concezione, non solo un luogo in cui si insegna e si studia (o, come si dice malamente, si fa ricerca), ma anche un luogo popolato da docenti che escono dai quattro muri delle loro aule e col loro sapere fecondano la comunità che li finanzia: per esempio (parlavo e parlo, per esperienza diretta, del solo comparto umanistico) partecipando alla presentazione di libri, tenendo conferenze, organizzando incontri pubblici su questo o quell’argomento, andando nelle scuole, portando le scuole nell’università, accompagnando scolaresche nei musei, nelle biblioteche, ad Auschwitz.
Come accade, l’articolo è piaciuto ad alcuni e non è piaciuto ad altri, ha ricevuto lodi e critiche. Alcune di queste critiche sono troppo sciocche per meritare di essere riprese qui; altre sciocche non sono, e meriterebbero di essere discusse. La critica che mi ha fatto più riflettere è venuta da un mio giovane collega che mi ha detto pressappoco: «Sì, d’accordo, però attenzione: così finisci per dare ragione a quei professori che pensano che l’unica cosa che devono fare è starsene chiusi in biblioteca o in ufficio, e che ogni compromissione con il mondo sia un affronto alla loro dignità di Studiosi: e infatti sono soprattutto questi che hanno approvato quello che hai scritto».
È un’obiezione sensata, e che mi ha dato pena: nessuno vuole trovarsi accanto come alleati dei cretini. Solo che – avrei voluto rispondere al collega – non siamo mica nel 1960.
Prima cosa. La figura del professore che, chiuso nella sua torre d’avorio, centellina le sue lezioni e riceve i suoi maturi allievi maschi nel suo studio pieno di libri, praticamente in pantofole, mentre i suoi assistenti maschi fanno gli esami e correggono le tesi dei tesisti, salvo isolate e patetiche eccezioni imprigionate nell’ambra, non esiste più. Tutti o quasi tutti fanno centoventi ore di lezione, gli studi si sono rimpiccioliti, gli scaffali sono stati sostituiti da brutti armadi in formica comprati in blocco con Consip, i libri uno se li tiene a casa, insieme alle pantofole. Gli studenti hanno smesso di venire a ricevimento perché c’è l’e-mail, o perché se ne fregano di tutto ciò che non sia il programma d’esame, che possono leggere online.
Adesso il professore torredavorista è una rarità, una mosca bianca: che si estinguerà a mano a mano che entreranno in ruolo nuovi giovani ricercatori nati nel nuovo mondo post-riforma e post-Anvur. Adesso il profilo più frequente, tra i docenti, è quello esattamente opposto: il docente impegnato, pronto a spendersi, a organizzare, a partire, a parlare, a scrivere (per essere chiari: è anche un po’ il mio profilo) – uno così bisogna legarlo, per farlo stare nella torre d’avorio, perché l’habitat che gli è più congeniale è la giungla. Il torredavorista ha i suoi torti, i suoi snobismi, ma è preoccupato perché vede che l’università, che dovrebbe operare soprattutto in vista della formazione degli studenti e del progresso della conoscenza, si disperde in mille vane iniziative di facciata che aumentano altrettanto vanamente il lavoro degli “uffici”. Il torredavorista ha un po’ di ragione.

Seconda cosa. Il sistema, la macchina, o comunque si voglia chiamare il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera, opera decisamente, violentemente nella direzione che ho detto: non la torre d’avorio ma la partecipazione, la fusione, l’impegno nella società. La giungla. Violentemente vuol dire che la terza missione è diventata una voce da valutare nell’assegnazione dei fondi alle università e ai dipartimenti, sicché occorre non solo – come si è più o meno sempre fatto – praticare la terza missione ma anche registrarla, darne conto, compilare pagine web. Eundo, la terza missione – per gli umanisti che non producono brevetti, non lavorano con le aziende e fanno poco conto terzi – è andata sempre più identificandosi con il Public Engagement (“impegno pubblico” era un’etichetta troppo grigia, in questo Paese così versato nelle lingue straniere). Il Public Engagement ha, come tutto, il suo bravo format, che va compilato in ogni sua parte per mostrare ai Valutatori che si chineranno su queste carte, chiunque essi siano, che ci si è dati da fare, e per aiutarli nell’esatta misurazione di questo Engagement. Perché bisogna soprattutto misurare. Come accade con quasi tutti i documenti che vengono da Bruxelles o da Roma, la compilazione di questo format è un esercizio particolarmente congeniale ai mitomani. Quanta gente c’era? (Erano quattro gatti, ma perché non scrivere “50”?) Quanti studenti coinvolti nell’organizzazione? (Un paio, ma mettiamo “12”.) Dimensione geografica dell’impatto? (Perché accontentarsi di “locale”, mettiamo almeno “regionale”!) Risultati ottenuti? (“Ottimi”.) Sustainable Development Goal? (Eeeeh?) Sette pagine così, una cinquantina di campi da compilare. Si perde tempo, si dicono bugie, si sparano grosse: e nessuna di queste cose va bene, se si ha un po’ a cuore, diciamo, la dignità della professione; e del luogo in cui la professione si esercita.
Quindi, in conclusione, io non sono contro la terza missione, come non sono contro la pratica di far sedere le persone anziane sui mezzi pubblici o quella di raccattare la cacca del cane. Son cose che si fanno, senza pensarci troppo sopra. Vorrei però che la terza missione – cioè l’impiego del proprio sapere in un cerchio più ampio di quello formato da studenti e dottorandi – non venisse normata, non venisse valutata, e soprattutto non venisse premiata con elargizioni che pescano, come tutto, dalla fiscalità generale.
«No, però di’ la verità, tu un po’ ce l’hai con questi che fanno le presentazioni dei libri, organizzano le giornate della memoria, declamano Dante dal loro Speaker’s Corner». Sì, un po’ sì, ma per una ragione che non ha niente di oggettivo: solo perché, nella mia esperienza, i professori migliori che ho avuto non facevano queste cose – studiavano, insegnavano, e mediatamente miglioravano il loro minuscolo angolo di mondo. Che questa personale esperienza rifletta, in fondo, una più generale verità?
