Il posto è il libro del 1983 in cui Annie Ernaux ricorda suo padre e, così facendo, racconta la storia di una famiglia francese passata, nel giro di tre generazioni, per diversi salti sociali, antropologici, forse morali. Da analfabeti a scrittori. Da contadini a operai, a commercianti. Da proletari a piccolo borghesi. Da calpestati dalla Storia a chi, la storia, conquista finalmente il diritto di raccontarla, sapendo non solo che una ferita resta aperta ma che proprio quella, la ferita, è la fonte più attendibile per attingere al ricordo. 

Nelle prime pagine del libro – di stupefacente bellezza – Annie Ernaux offre una prova di bravura di cui raramente si è testimoni leggendo un contemporaneo: un superbo ingresso nel libro per sicurezza, semplicità, disinvoltura nel compiere una specie di doppio passo, un falso movimento di cui a non stare attenti – tanto il racconto entra subito nel vivo – si perderebbe traccia. 

Ernaux prende le mosse dal giorno in cui, in un lontano aprile, ottiene un posto da insegnante presso un liceo di Lione. Il responso le viene comunicato a conclusione di un esame durante il quale i commissari danno prova di un puntiglio ai limiti della crudeltà, l’umiliazione quasi istituzionalizzata con cui si segna il passaggio di status. 

Ernaux non scrive per indagare i meccanismi della memoria involontaria ma per dare ai morti una seconda sepoltura

«Non ho smesso di pensare a questo cerimoniale fino alla fermata del bus, con rabbia e una sorta di vergogna. La sera stessa ho scritto ai miei genitori che sarei presto diventata professoressa di ruolo». Una riga bianca, poi il colpo. «Mio padre è morto esattamente due mesi dopo». Quindi la voce narrante confessa che, in alcuni momenti, le capita ancora di non sapere più se la prova nel liceo di Lione si sia svolta prima o dopo la morte di suo padre. Ci aspetteremmo di conseguenza il solito narratore inattendibile. E invece, da questo punto in poi, la successione dei ricordi si fa via via sempre più precisa, stentorea, nitida, ustionante.

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