EQUIVOCI 1 (EREDITÀ LETTERARIA)
La nostra cultura del Presente Assoluto scoraggia i salutari paragoni critici “in verticale”, cioè tra scrittori recenti oggi monumentalizzati e scrittori di altre epoche troppo frettolosamente dimenticati: siamo sicuri ad esempio, insisteva in solitudine Luigi Baldacci, che Calvino sia più grande di Bontempelli, al quale deve non poco? In realtà, per essere precisi, il paragone tra passato e presente è diffusissimo: non però in chiave critica, ma pubblicitaria. Quanti “Hemingway” o “Woolf”, e addirittura quanti “Proust” o “Dostoevskij” “dei nostri anni” scopriamo sulle fascette editoriali e nelle recensioni embedded? Bastano una certa secchezza stilizzata e virilista, qualche nuance più che femminile femminea, un po’ di memoria famigliare flou o un po’ di estetismo sui demoni maligni appiccicato a un fatto di cronaca nera, e il certificato si ottiene senza sforzo. Un caso particolare è quello di Balzac. Perché oggi il suo nome torna a risuonare ovunque. Se l’entre deux guerres del Novecento, con un’abbondante coda italiana post ’45, ha tentato di svincolarsi dalla psicologia attraverso Stendhal, e se tra gli anni Cinquanta e Sessanta il nuovo oggettivismo della reificazione ha dovuto rifare i conti con Flaubert, da almeno una generazione l’Ottocento francese – come dire: il romanzesco – a cui si guarda con nuova voluttà è quello debordante e incondito della Commedia umana. Le ragioni non sono misteriose. È un tempo di storytelling vorace, di ipnosi da lunghe e complicate trame, di serie e di spin off, di complottismi giornalistico-esoterici, di astratte fantasie di dominio, di desideri mimetici allo stato brado. Ma è anche un tempo di equivoci. Non siamo mai usciti dall’alienazione delle società di massa, esito finale di un processo storico di cui Balzac ha visto solo gli eroici albori. Perciò le sue sono fantasie in movimento, rapinose e contagiose, che col loro dinamismo riescono a tenere in piedi plot e ideologie improbabili; le nostre invece sono scimmiottature prolisse e statiche, partorite da team editoriali i cui membri, in quanto individui singoli, appaiono ridotti all’impotenza. Di conseguenza, quando noi ripetiamo che una serie di successo o un romanzone realistico-avventuroso di ottocento pagine appena uscito in America o in Italia sono “balzacchiani”, svuotiamo il termine del suo significato essenziale. In quelle opere possono evocare la Commedia umana la struttura o la mole – ma non l’anima, non il motore primo. E non se ne fa qui una questione di qualità, bensì di atteggiamento, o verrebbe da dire di etimo. L’equivoco balzacchiano ci ricorda che i paragoni in verticale hanno senso unicamente là dove si coglie questo etimo; e lo si può cogliere solo là dove, comparando, per non sbagliare la proiezione si calcola con esattezza anche la differenza tra le epoche messe a fronte. In concreto: se Balzac incarna soprattutto il fascino di un potere e di un lusso che luccica sempre davanti agli occhi come un miraggio, e che spesso trascina tragicamente a fondo chi per inseguirlo si derealizza a sua volta, allora il vero Balzac del Novecento è l’americano Francis Scott Fitzgerald. Non, cioè, uno scrittore fluviale, come il modello e i suoi falsi eredi: ma uno scrittore magro, come è giusto, perché il ventesimo secolo che culturalmente ancora prosegue, al contrario del diciannovesimo, non è energico ma depresso e fragilissimo. E il gioco potrebbe continuare. Per esempio, se c’è un Verne novecentesco è il Verne ridotto all’assurdo dei libri di Raymond Roussel. Oppure: il testimone di Francesco De Sanctis non è stato raccolto da Giuseppe Antonio Borgese e Luigi Russo, ambasciatori-professori dall’umanesimo robusto ma ormai sordo alle nuove inquietudini; è passato invece nelle mani di un figlio ombroso, vulnerabile, infestato dai demoni come Giacomo Debenedetti.

EQUIVOCI 2 (ATTUALITÀ LETTERARIA)
Team editoriali, dicevamo. Ai loro tavoli oggi si producono “romanzi” che come è noto sono in realtà mera moneta di scambio mediatica. Sceneggiature levigate, già alla portata di ChatGPT. L’importante è che non ci siano sbavature. E spesso in effetti non ci sono: ma perché non c’è più neanche nulla di umano né nulla da amare, in quelle pagine al di qua del bello e del brutto. Il rischio della verità e dell’errore, ossia tutto ciò che ci appassiona nella letteratura, è scomparso in confezioni di storytelling fungibili, da aprire e subito richiudere con un sentimento di estraniata tristezza. Esistono varie categorie, in questo mercato; ma ormai da anni, una sembra spiccare sulle altre. Quasi sempre, i volumi che le appartengono sono fasciati da un tipo di copertina divenuta comune verso il 2010: al centro, un volto infantile torbidamente “adolescentizzato” – un’icona seminuda con occhioni di vetro, ciuffo o lentiggini, che vorrebbe suggerire insieme purezza e corruzione, languore e strazio. Quanto al contenuto, di solito prevede: affresco di Storia imperial-nazifascista; donne vessate dai nomi esotico-bizzarri, e almeno nell’intenzione fiabeschi (Malacarni, Lupestrane, Scurespine… magari con cognomi parlanti del genere di Cartamoneta o Estasi); viscere, gravidanze, aborti, crocifissi adorati e profanati, riti da fattucchiere che esigono la cucina di piatti regionali misti a mestruo; macchie di vago espressionismo orecchiato a scuola, e spezie linguistiche dialettali da manifestazione pro loco sparse su una lingua che sta tra il letterario-sostenuto e il giornalistico. Il risultato è una miniserie Rai in potenza, dove si accavallano incoerentemente avanzi di neorealismo, di realismo magico, di commedia all’italiana e di mélo. Ogni battuta è una solenne sentenza popolare, ogni gesto un’ostensione sacra. La voce narrante, rotonda e perentoria, chiede di continuo la complicità sentimentale del lettore, e appena descrive soprusi fin troppo plateali accresce l’effetto moralistico fingendo un tono beffardo. Esemplare tipico di questa categoria libraria è il recente I giorni di Vetro di Nicoletta Verna, inspiegabilmente – cioè per ragioni che è facilissimo spiegare – molto festeggiato da recensori e letterati. La protagonista Redenta nasce in Romagna il giorno del delitto Matteotti (e della futura entrata in guerra). Come i segnati dalla sorte o “scarogna”, resta zoppa, e addirittura sembra muta o scema, ma naturalmente è saggia: e la prima parola che pronuncia è “assassino”. Attorno al suo sguardo di equità cristologica, alle sue azioni duramente bibliche, si dispongono le macchiette di paese (che come di consueto dicono la verità in modo scorbutico) e alcuni uomini o vili o mitizzati: il padre facinoroso, l’orfano rude ma buono e temerario che aspetta l’agnizione finale, e il suo doppio luciferino, un machissimo sadico sfregiato. Completa il quadro un’altra donna fatale, e per così dire “irredenta”. Tra questi personaggi corrono approcci sessuali di – citiamo – “potenza inesorabile”; e non c’è forse bisogno di aggiungere che qui Eros si alimenta con Thanatos («lo eccitava lo sguardo feroce che lei aveva fatto mentre gli infilava la lama nel petto»). Tutte le scene sono pensate come sequenze di cinema andante: dove la narrazione fatica a reggere il ritmo s’inseriscono subito un’invenzione pittoresca, un proverbio colorito, un dialogo o una similitudine stentorei. Un uomo guarda la futura suocera negli occhi «come guarda i nemici in guerra, sgozzandoli», e durante uno scontro a fuoco, un capo partigiano «“Vai all’inferno,” ruggisce (…) divincolandosi, come posseduto dal demonio». Qua e là intervengono in corsivo gli spiritelli dei morti, più didascalici dei presentatori di un telegiornale. Ogni capoverso vorrebbe risultare plastico e visivo, ma è soltanto grevemente iperbolico, senza avere nemmeno la disinvoltura del fumettone. L’autrice aspira a creare un’atmosfera da giustizia tragica, mentre tutto suona falso come un melodramma fuori contesto. Come in certi Tex, che si aprono su una storia già iniziata nel numero precedente, sembra che i personaggi fingano di dialogare tra loro unicamente per riassumere certi eventi a beneficio del lettore: e lo fanno alla maniera di quegli attori cui tocca impersonare dei contadini, ma che proprio non riescono a non attribuirgli un linguaggio da editorialista di «Repubblica». Abbondano quindi le paginette da manuale di storia o educazione civica del 2020: sulla campagna di Russia, sui conti e i papi del Medioevo, sulle riunioni e le letture degli antifascisti, sulle spose bambine dei soldati italiani in Abissinia. A un certo punto Vetro – il maschio luciferino con un occhio artificiale – mentre è steso sul letto sintetizza a edificazione della moglie il Freud di Al di là del principio di piacere. Fascista all’ennesima potenza, questo macho tortura le amanti per eccitazione ideologica, e viceversa: un cliché che permette di tenere economicamente insieme il tema mussoliniano e quello femminista. Alla fine, manco a dirlo, i cerchi si chiudono uno a uno secondo le esigenze della produzione. Non è forse, una narrativa del genere, il degno correlativo culturale di una politica che sta tornando alla formula di “sangue e suolo”? Ma forse, più prosaicamente, ha ragione quel mio amico che appena letta la trama ha commentato: “È la letteratura del PNRR”.

IL MONDO È QUELLO CHE È
In questi giorni si celebra il centenario della nascita di Gilles Deleuze. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, la sua opera ha continuato a suggestionare i nostri intellettuali non meno di quella di Walter Benjamin. E non a caso: infatti, pur essendo diversissime e quasi opposte, sono entrambe antidialettiche. In Benjamin tra materialismo e messianismo salta la prospettiva umanistica. Quanto a Deleuze, serve a dar ragione a ciò che la sua ragione l’ha già ottenuta con la forza: l’immanentismo scatenato nutre l’ideologia di un mondo che non conosce più un fuori, un’alternativa plausibile su cui far leva, rimuovendo il negativo e l’errore per esaltare un presente che trabocca della sua stessa pienezza. La funzione Benjamin permette di alludere a una propria vaga inintegrabilità rimanendo però oggettivisti all’estremo, e tracciando intorno alle inerti costellazioni di oggetti il cerchio di una radiazione misteriosa; la funzione Deleuze, rituffando il soggetto in un atto puro, trasforma verbalmente la sua impotenza in onnipotenza e gli evita l’accusa che più teme: quella di essere un ingenuo moralista, un risentito per frustrazione. Da un lato il motto è un fiabesco “Marmellata domani e marmellata ieri, mai marmellata oggi”, dall’altro lato un frenetico “Si può quel che si fa”.