MEDIETÀ 1. A chi va in giro a presentare i suoi racconti o romanzi possono capitare molte cose bizzarre. Tra queste, una mi sembra piuttosto istruttiva per comprendere i problemi della narrativa italiana. Può capitare dunque che l’autore, nel suo libro, abbia descritto una riunione conviviale tra personaggi contemporanei di mezza età. Per rendere credibili i loro dialoghi di precari statali, di lavoratori culturali o di gestori di caffè polivalenti, può capitare che abbia stenografato uno small talk dove ai sentimenti, ai pannolini e ai resoconti sui genitori invecchiati si mescola qualche discorso smozzicato su un film o una serie appena uscita, qualche battuta su un pamphlet letto da poco o su un fenomeno di costume. Nulla di strano, giusto? Dopotutto si parla di generazioni fin troppo scolarizzate. Eppure, alle presentazioni questo fatto suscita stupore. Uno stupore magari anche ammirato, ma spaesante. Certi lettori, con una strizzata d’occhio, dicono di avere apprezzato “la satira sui nostri intellettuali”. Altri, al contrario, arrivano ad affermare che alcune di quelle battute sono “aforismi formidabili”. A questo punto, l’autore non sa cosa rispondere. È a disagio, perché non sta a lui offrire una interpretazione “corretta” del suo testo; e tuttavia gli pare evidente che quei dialoghi non somigliano né a una satira né a uno scambio tra Kraus e Flaiano. Rileggendoli, ha l’impressione che siano più o meno ciò che lui voleva che fossero: il chiacchiericcio di figli qualunque dell’ex ceto medio riflessivo. Perché la rappresentazione di una tale mediocrità viene fraintesa, mentre non accade con la rappresentazione di altre condizioni umane altrettanto comuni? Forse la risposta è semplice, e rivelatrice: quel ceto è lo stesso dei lettori e degli scrittori, dell’ambiente letterario, del “pubblico della narrativa” italiana. E i suoi membri rifiutano lo specchio. Quando se lo trovano davanti, hanno bisogno d’illudersi che sia una superficie deformante. Dove non è quella dei contadini o dei migranti, dei picari o degli individui eccezionali, la nudità che li imbarazza. Non a caso, il narratore medio affronta le scene conviviali di cui sopra in tutt’altro modo. Di solito le sue soluzioni sono due, opposte e complementari: o finge che quel tipo di personaggio sia uguale agli eslege decadenti che vagheggia condendoli con un po’ di minimalismo anglosassone, e allora lo fa parlare in modi improbabilmente laconici (“ehi, fra’”, “è proprio così, vecchio mio”); oppure gli mette in bocca ex abrupto un elzeviro di Arbasino, approfittandone per attribuirgli qualche teoria (su Super Mario Bros, su Benjamin a Sanremo, sulle comparse nel cinema di genere anni Settanta…) che si trascina dietro dalla tesi di laurea. Questo laconismo, e questa brillantezza stonata, coprono appunto l’imbarazzo dello specchio. I nostri scrittori, mediamente, non sanno stare fermi davanti al suo riflesso. Cercando di nascondere una vampata adolescenziale di rossore, gli si sottraggono e si dibattono per inseguire una posa. Forse è significativo che tra i pochi a non farlo – tra i pochi a restare fermi, a restare silenziosi sotto l’obiettivo – ci siano due narratori a cui la critica non ha mai saputo prendere le misure: gli scrittori adriatici Claudio Piersanti e Gilberto Severini, capaci di rappresentare in forme molto credibili il grigiore piccolo borghese. 

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CONFESSIONI A METÀ. Buona parte delle narrazioni che troviamo in libreria, e che si propongono come eredi della “narrativa di qualità” del Novecento, non costituiscono più una critica della vita, ma semmai un risarcimento nella vita: sono autoapologie e rivendicazioni immediate, a cui gli autori arrivano senza nemmeno attraversare le loro vergogne. Si sfogliano i volumi freschi di stampa impilati in vetrina, e si pensa a quanto

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