I FOBICI 

Secondo George Orwell, una società totalitaria capace di durare provocherebbe una scissione: i suoi membri continuerebbero a servirsi del senso comune nella vita quotidiana e nello studio di alcune scienze esatte, mentre inizierebbero a trascurarlo nel campo della politica e della storia. Molti, cioè, riterrebbero scandaloso falsificare un manuale di ingegneria, ma non un fatto storico. «È dunque nel punto in cui letteratura e politica si incrociano che il totalitarismo esercita la sua maggiore pressione sull’intellettuale» concludeva Orwell. Che in realtà, lo sappiamo, non parlava di un futuro distopico, bensì delle tendenze totalitarie affermatesi in quel pezzo di Novecento di cui aveva diretta e traumatica esperienza. È il Novecento che, senza più infingimenti, usa lo storicismo non per inquadrare il passato, ma per giustificare i massacri in atto nel presente. Di questa dottrina, a noi toccano solo i resti. Ma non sono affatto innocui; perché, come notava Savinio, le idee morte che ingombrano il cammino si rivelano quasi sempre più pericolose di quelle ben vive. Nel panorama italiano (coi suoi detriti delle doppie verità comuniste, clerico-fasciste, antisemite) spicca un effetto peculiare di questa putrefazione ideologica. Proviamo a descriverlo. Nel pieno e tardo Novecento, i rappresentanti più autorevoli delle nostre scienze umane mentivano spesso, e spesso per omissione, là dove occorreva adattare i fatti alla ragione di chiesa o di partito; ma erano machiavellicamente consapevoli delle loro menzogne. Gli intellettuali delle generazioni successive, quelli educati dalla loro opera, non lo sono più. Non sanno che gli è stato negato un pezzo di verità: e quindi, col passare dei decenni, l’ignoranza si è trasformata nella massiccia diffusione di un tipo di analisi (letteraria, filosofica, sociale) che si segnala per i suoi disastrosi errori di proporzione. A volte, si capisce, certe verità rimosse riaffiorano come erbe tra le crepe del cemento ideologico. Ma allora agli ignari sembrano creature mostruose: e le evitano con un atteggiamento fobico.

Sessant’anni fa, lo stesso Fortini che conosceva benissimo Orwell, e che chiedeva informazioni a Renata Pisu sulle condizioni agghiaccianti del regime di Mao, si guardava bene dal discutere troppo in pubblico gli scritti orwelliani, e consigliava alla sinologa di tacere per non fare il gioco del nemico. Oggi ci sono decine di fortiniani che semplicemente non hanno mai riflettuto – se non con sbrigativo sussiego – su Omaggio alla Catalogna o 1984, e che continuano a trattare la Cina comunista come un “paese allegorico”, senza avere più nemmeno il sentimento della tragedia. Un caso comune di fobia è quello che si verifica davanti a tutto ciò che il medio intellettuale italiano percepisce come “liberale”. Personalmente non ho nessuna tenerezza per i rappresentanti tipici del nostro liberalismo: innumerevoli, tra loro, sono i complici delle dittature, i servi del potere economico, i chierici abituati a confondere liberalismo con conservatorismo, eccetera. Però, in genere, i fobici che pronunciano con disprezzo la parola “liberale” non conoscono né il peggio né il meglio di quella tradizione. I testi e i centri culturali che li hanno nutriti, o piuttosto catechizzati, si sono infatti incaricati di dipingergli il “liberale” come un lupo da fiaba: e dunque il loro riflesso è appunto quello di evitare gli scritti e i discorsi del lupo in quanto oggetti pericolosi, contaminati.

Un esempio. Se non si tratta di specialisti della storia delle idee, è molto raro che i nostri intellettuali vagamente marxisteggianti abbiano meditato Aron o Arendt; mentre di solito i liberali fedeli ad Aron o Arendt hanno letto con tranquillità, e anche con profitto, Gramsci e Sartre. Chi è stato educato ad assimilare solo ciò che può essere facilmente inserito in una dottrina, non può permettersi di analizzare il resto delle idee senza deformarle. E sia chiaro che “inserire” non significa per forza condividere: non a caso i fobici marxisteggianti vanno pazzi per i reazionari, perché si lasciano collocare senza problemi nel loro puzzle storicista. Il fenomeno è riscontrabile anche nei territori più interni di certe discipline, quelli che non confinano immediatamente con la politica: gli intellettuali più settari, più gruppettari e machiavellici hanno fatto terra bruciata lì come altrove.

Ancora un esempio. Non sapendo rispondere alle obiezioni del vicino Fortini, la neoavanguardia di Edoardo Sanguineti lo diffamava; e bullizzava Cesare Garboli. Oggi i sedicenti sanguinetiani (che in realtà sono quasi sempre dei sincretisti confusi) ignorano del tutto Garboli; e visto il mutamento di panorama culturale, inseriscono Fortini e Sanguineti in un’unica improbabile famiglia. Privi dell’astuzia del maestro, e abituati a credere che la raffinatezza stilistica si veda subito a occhio nudo come l’insegna lampeggiante di un negozio, davanti a Cassola hanno lo stesso riflesso dei filistei davanti a un quadro avanguardista o informale: “questo sapevo farlo anch’io”. Così si chiude il cerchio, e la sofisticazione mostra il suo rovescio naif. I fobici non pensano più: volgarizzano i maestri che hanno pensato per loro. Accettano i canoni provvisoriamente egemoni nel loro milieu, cancellando le argomentazioni contrarie. Negli studi e nei convegni odierni su Fenoglio, chi cita più (magari per confutarle) le perplessità di Montale, Pasolini o Fortini sullo scrittore di Alba? E in quelli su Caproni, chi dà più conto dei motivi per cui, dopo decenni di sottovalutazione, a partire dagli anni Ottanta si è accumulata sul poeta del Muro della terra una letteratura grevemente apologetica, in cui spiccano i contributi di studiosi e verseggiatori i quali, quando non si tratta di autori canonizzati, hanno invece un’autentica fobia della rima e dell’aforisma? La prassi è sempre quella: o mitizzare o troncare, sopire, rimuovere – poco importa che si tratti di autorevoli ma indigeribili opinioni critiche sulla letteratura, o di autorevoli ma indigeribili moniti di Liliana Segre contro la propaganda antisemita che equipara al fascismo non i crimini di Netanyahu, ma la tradizione nobile del sionismo e la storia di Israele. Il risultato è che si è ormai capaci di parlare solo di ciò che galvanizzava i simili del manzoniano conte Attilio: i sanguinosi puntigli, gli ornamenti kitsch di una civiltà che decade.  

AI, SCHIZOFRENIA E VERGOGNA

Quella che ho chiamato scissione, Orwell la chiama anche schizofrenia. Come è noto, in 1984 si parla del doublethink, il bipensiero che esige di «ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda». Chi conosce l’opera orwelliana sa che questo bipensiero è parente stretto delle «leggi assolute come la forza di gravità, ma che m’era impossibile osservare» alle quali fu sottoposto il piccolo Eric Blair nella preparatory school di St. Cyprian, nonché del doloroso stallo provato in Birmania dal poliziotto diviso «tra il mio odio per l’impero che servivo» e la voglia di «piantare una baionetta nella pancia di un prete buddista». A differenza degli intellettuali evocati sopra, fin dai primi scritti Orwell ha espresso con rigore le sue contraddizioni di piccolo-borghese colto; finché, nel secondo dopoguerra, le ha trasformate in un formidabile strumento per dar conto degli incubi europei e planetari. È interessante notare che nello stesso periodo anche altri intellettuali, tra loro diversissimi, hanno ragionato su una scissione analoga, elaborando ognuno a suo modo la terribile lezione del trentennio 1914-1945, e senza mai ridurre il concetto al passepartout che di lì a poco avrebbe fatto la fortuna – acritica – della filosofia francese. Si pensi al double bind di Gregory Bateson, che analizza un conflitto psichico molto simile a una versione pragmatica, cioè violenta, del paradosso del mentitore: ricevendo dal suo ambiente delle prescrizioni contraddittorie, che non può eludere né demistificare, un soggetto viene spinto al limite della schizofrenia. Contemporaneamente, Nicola Chiaromonte definiva “tempo della malafede” l’epoca che dalla Grande guerra in avanti impone di essere insieme nichilisti e dogmatici. E bisogna citare ancora la prima parte dell’Uomo è antiquato di Günther Anders, un libro che a molti è parso a lungo antiquato e che oggi, mentre si estende rapidamente il dibattito sull’Intelligenza Artificiale, appare invece attualissimo. Anders descrive un essere umano che vuole essere tale e al tempo stesso essere altro. Questo stato è indotto dallo sviluppo tecnologico. Ormai, specchiandosi nelle macchine, l’uomo si sente al loro confronto goffo, lento, imperdonabilmente arretrato. Si vergogna, insomma. Con efficace ossimoro, Anders chiama questo sentimento “vergogna prometeica”: perché è il rovescio dell’orgoglio prometeico dell’Ottocento. Nel XXI secolo, mi sembra, ne siamo tutti pervasi. Perciò dimentichiamo che l’obiettivo di ogni nostra produzione – lo dico à la Fortini – siamo sempre noi, qui e ora: e dimenticarlo rende insensato qualunque discorso sul progresso, sull’innovazione e sull’AI. A proposito della quale, per attenuare un po’ la vergogna, da profani possiamo dire almeno una cosa: che a giudicare dalle sue creazioni è fisiologicamente pompier. 

CONTRO LO SPECIALISTA DEMAGOGO

L’idea secondo cui esisterebbero persone in grado di difendersi da qualunque fake news o truffa più o meno tecnologica non ha nessun fondamento; non più dell’idea che esista oggi una misura condivisa di cultura generale. Alcuni di noi sono più capaci di accorgersi di certi imbrogli, altri di altri. Anche sorvolando sulla psicologia e sulle relazioni sociali, nessuno può possedere le conoscenze necessarie a vagliare tutte le informazioni. Perfino un biologo o un informatico, di fronte alla maggior parte dei sottocampi specialistici del loro campo di studio, somigliano da molto tempo a dei profani. È la ragione per cui non è demagogico soltanto il populismo di chi finge di poter giudicare ogni giorno l’universo intero, ma anche il ricatto di chi finge che si possa passare la vita nel debunking. Non ci salveranno né i Tuttologi né gli Specialisti, che spesso sono le due parti scisse di uno stesso intellettuale schizofrenico. Che difesa ci resta, allora? Quella, direi, che purtroppo la nostra formazione scolastica e la nostra industria culturale tendono fin da subito a sottrarci: cioè il continuo confronto tra ciò che leggiamo o vediamo e la nostra esperienza, la capacità di stabilire proporzioni tra ambiti di senso o tra noto e ignoto, ossia in fondo il critico “sapere di non sapere” e l’autoanalisi incessante di Socrate e Montaigne. Oggi una formazione di lusso, che i democratici dovrebbero voler estendere a ogni essere umano, è quella che davanti a spaventose forze alienanti insegna a non cedere subito le armi della critica e a rifiutare il principio di autorità, là dove è illegittimo, senza perciò rifiutare lo studio e la ricerca. È quella, ancora, che insegna a non lasciarsi intimidire dai chierici i quali “blastano” chi ignora una nozione, ma appena abbandonano la loro materia si dimostrano incapaci di ragionare. Socrate e Montaigne funzionano da emblemi delle due tendenze anti-sofisticazione che più andrebbero incoraggiate: l’abitudine al dialogo e il rispetto del carattere.

Se guardiamo con equità al Novecento, ci accorgeremo che alcuni dei suoi pensieri più preziosi riprendono le tradizioni in cui, anziché fondare il dialogo su una verità acquisita, si formulano viceversa delle ipotesi a partire dal dialogo come unico a priori. Si pensi alla filosofia di Guido Calogero, o a quelle, meno affabili, che più tardi hanno cercato di fondere ermeneutica e pragmatismo linguistico. Si pensi alle interpretazioni antidogmatiche e antistoricistiche che di Platone hanno dato Nicola Chiaromonte e Leo Strauss. Il dialogo autentico è per natura ironico, dialettico, teatrale: conosce la verità soltanto relativamente a una determinata situazione. La posizione socratica aiuta poi a ricordare che lo spirito critico è inversamente proporzionale al potere – che più alto è il proprio ruolo, meno si sa giudicare con libertà. «Socrate non può entrare a far parte dell’Areopago» diceva Elvio Fachinelli indicando le contraddizioni della psicanalisi freudiana. Mentre la tecnologia, inducendo a privilegiare i linguaggi “autistici”, rischia di cancellare il contesto democratico, il dialogo lo preserva. E meglio se anziché essere predicato è messo in scena, come nella tradizione moderna ha continuato a fare quella genealogia di scrittori mercuriali che va da Diderot a Enzensberger, grandi mediatori tra le cosiddette “due culture”. Quanto al carattere: ognuno di noi, per comprendere davvero la realtà che lo circonda, ha bisogno di commisurare il sapere alla propria fisiologia. Ognuno ha un organismo diverso, che richiede una diversa dieta culturale. Chi lo dimentica, alienandosi a quelle che per un certo periodo sembrano le Teorie Oggettive e Risolutive, perde in un colpo solo sé stesso e la possibilità di istruirsi. Dai greci a Nietzsche e oltre, si è riconosciuto nel carattere il demone e il destino di un uomo. Ma forse oggi, di fronte a una cultura di idolatri e di blastatori che credono sempre di sapere “quello che conta”, è più utile usare le parole di Baudelaire: «Non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità di ciascuno è il suo genio».