BARBARI D’INGEGNO. “Se Shakespeare o Dante morissero oggi, sui social si direbbe che non sono poi granché”: è la battuta tipica, e stagionalmente ripetuta, degli snob della cultura, che credono così di fustigare i cattivi costumi del “populismo letterario”, della “critica-fai-da-te” o del “giustizialismo della rete”. Continuano a non capire, gli snob, che queste parole sono un boomerang – o uno specchio. Non a caso, di solito chi le pronuncia accetta passivamente anche i ben più fragili canoni del Novecento o del Duemila decisi da figure che appaiono autorevoli per il loro ruolo pubblico: quasi non si trattasse di letteratura ma di virologia. È l’involontaria autodenuncia di un ceto culturale cresciuto nella convinzione che la Scuola possa fornirci una volta per tutte un Sapere Umanistico Oggettivo. Almeno dagli anni Sessanta, questa scuola ha cominciato ad allentare i suoi rapporti con il dibattito critico fino a reciderli. Risultato: si accoglie la “critica” solo dove si presenta rivestita delle insegne contro cui è nata – le insegne dell’ipse dixit. Il “populismo letterario” non è che il volgare rovescio di questo volgare accademismo. Sono complici. Si reggono insieme; e insieme cadranno solo là dove una comunità abbastanza influente e numerosa sarà capace di ricordare che i canoni letterari non sono faccende letterarie, ma riguardano i valori di una civiltà – e quindi con le civiltà si affermano, cambiano e muoiono. Chi oggi, tra gli snob di cui sopra, saprebbe tracciare un breve panorama delle fortune e sfortune di Dante e di Shakespeare, che noi leggiamo ancora nei loro restauri romantici? Chi ricorda, su di loro, le pagine precedenti di Bettinelli o di Voltaire? Anziché assegnare tesi su “letteratura e neuroscienze” o su “i biglietti di Anna Maria Ortese a Dario Bellezza nell’autunno del ’70”, occorrerebbe invitare i giovani studiosi a ripercorrere almeno la storia della critica carducciana. A esaminare le sue certezze tronfie cancellate di colpo, i tentativi di bullismo contro le prime stroncature ben argomentate, i cambi di fronte silenziosi a battaglia persa. Non si tratta d’interessarsi chissà quanto a Carducci: si tratta di imparare, attraverso un caso concreto, il relativismo e l’instabilità non solo della storia politica ma anche di quella culturale e poetica. Magari, chissà, qualche dottorando abituato a sentir descrivere Zanzotto o Sereni come fossero Dante o Petrarca, potrebbe allora domandarsi se non li vediamo così monumentali perché siamo ancora troppo vicini al loro clima letterario – e se un giorno non ci sembreranno invece dei Carducci del Novecento.
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CENT’ANNI DI OSSI (E DI RELIQUIE). Esiste un’idolatria di Eugenio Montale che non aiuta a capirlo: a capire, cioè, sia la sua straordinaria abilità sia i suoi difetti di fondo. Negli anni ne ho parlato spesso; ma ogni volta che si viene a una discussione, naturalmente gli idolatri rifiutano il piano critico: dànno per scontata la grandezza dei testi, e solo poi li analizzano. Per farlo devono ignorare perfino alcuni dubbi decisivi che proprio gli apologeti montaliani – in primis Contini – hanno lasciato cadere nei loro studi. A volte, quindi, l’ultima arma è la parodia: che non dimostra nulla, ma può almeno mostrare. Il Montale sovrainterpretato e accettato a torto a occhi chiusi è quello che orchestra capziosamente ex post, per così dire, una serie di ritmi e oggetti preziosi, fingendo un’intuizione totale in realtà assente. Una sua parodia jabberwockyca, foscomarainica o totiscialojaca – cioè una parodia che ne mimi l’armatura musicale e pseudoconcettuale dando come risultato un nonsense – potrebbe suonare così:
Stumpa in aria l’arsitica. S’ammuga
l’impiastro sulla pittima che latra.
Gheppia il trullo. Nella patra
è cromo chi non svanzica la ruga.
Ma ora non spuma più. Non più
ti falberai al ronco che ti pieta: dove pappi?
E’ tardi se il tuo vate non vaterca
il cupo lonfo e… Ahi! già l’adduttore ha strappi.
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IO, MOSTRO DA NIENTE. Due tipi di Storie esauriscono sempre più la nostra attenzione: quelle universali e quelle del giorno. Trascuriamo invece i fenomeni di medio-lungo periodo, poco fruttuosi sia per chi s’impone al pubblico con i bignami, sia per chi si ricava un pascolo accademico o giornalistico brevettando l’etichetta più efficace per l’ultima tendenza di stagione. Culturalmente, mi pare, questa trascuratezza ha un prezzo troppo alto. Ad esempio, sul piano estetico, ci induce a sottovalutare le costanti decisive che legano il 2020 al 1920. Un esempio: i personaggi letterari creati fino alla Belle époque non ci somigliano più, e venivano sentiti lontani già nel 1918; viceversa, quelli successivi alla Grande guerra continuano a somigliarci un po’ tutti, e hanno tutti l’aria degli eliotiani “uomini vuoti”. D’altra parte, nel romanzo la crisi d’inizio Novecento non è stata né superata né accettata nelle sue conseguenze estreme: perciò ci muoviamo ancora in un regime di mezza verità e di – come dire? – mezza vita. Dopo il logoramento del naturalismo (e dopo Proust, Joyce, Kafka, Musil) i narratori più consapevoli hanno capito di dover battere un’altra strada; ma per chi voleva rimanere pur sempre un romanziere, un altrove autentico non c’era. Ecco allora che il vecchio naturalismo è stato fino a oggi truccato, ritoccato, deformato dall’interno: e tuttora in sé medesmo si volve co’ denti. Era un fenomeno già visibile nei cavilli prospettici e nelle caricature di Conrad e Pirandello. E nella generazione successiva, si pensi a come sia Gadda sia Nabokov infieriscono su un romanzo ottocentesco già umiliato: lo strizzano, lo spernacchiano, lo bullizzano con le tecniche moderniste, eppure non escono dal suo perimetro. Il miglior bilancio dell’aporia, al solito cauto nella forma e radicale nella sostanza, lo ha tratto nel 1965 Giacomo Debenedetti nel suo saggio di Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo. L’agonia del personaggio ottocentesco, suggerisce Debenedetti, ha prodotto “l’antipersonaggio”: che però implica una contraddizione narrativa in termini, e non può instaurare una tradizione senza tradirsi e costituire un’arcadia paradossale. Nel frattempo, contro questo antipersonaggio lavorano “gli attuali rampolli della vecchia dinastia”, principi spodestati del legittimismo che vorrebbero introdurre le novità novecentesche in una cornice ancora capace di definire destini universalmente umani e umanamente leggibili. Purtroppo però, constata il critico non senza rammarico, questi “pretendenti” sono in realtà «dei simulatori di destino»; e cita il caso di un altro grande coetaneo di Gadda e di Nabokov: William Faulkner. Che non offre un’alternativa al personaggio-uomo ma lo rende mostruoso, abnorme, pittoresco. È una fuga dalla temuta ovvietà naturalista che malgrado tutto la conferma. In conclusione le «avventure di fuorviati, vagabondi, eccentrici e arrabbiati sono l’effetto di un frullino meccanico che spera di far nascere il vortice nella fissità atipica e senza sbocco delle situazioni estreme. Parecchi esemplari del più recente romanzo americano paiono il risultato di una razzia compiuta tra velleitari dell’individualità, che di individuale non conservano se non la smania di esibirsi come eccezioni esagitate o depresse. (…) Le loro demoralizzanti vicende non valgono neppure come denunce di qualche disfunzione della società, visto che l’incombenza a cui essi più ambiscono è di mantenersi asociali e di impedire alla società, comunque organizzata, di preservarli dalle situazioni estreme». Ora, proviamo a reprimere la nostra tendenza a battezzare una nuova poetica all’anno: per quanto riguarda i fondamentali, non siamo forse ancora a questo punto? Senza più la qualità e il tormento di tanti romanzieri del pieno XX secolo, non ci troviamo forse a discutere ogni stagione di romanzi che, non avendo un altrove in cui fuggire dalla forma convenzionale, la addobbano con decorazioni pittoresche, con invenzioni capziose e tecnicamente neodecadenti? La Natura Corrotta, i Bambini come Cristi di Periferia, l’allusione civile che dà l’alibi all’estetismo e viceversa (che so: si brucia un gatto in branco e si gioca al sequestro Moro), la prosa ornata e calligrafica che però non modifica la sostanza corriva dell’inventio, il Pulp e il Sacro a esorcizzare il racconto della vita quotidiana… La maggior parte dei narratori ci vuole fare paura con i mostriciattoli, al patto di evitare l’unico mostro che uno scrittore dovrebbe affrontare: l’esistenza senza nome, e assai poco esotica, di «tutti / gli uomini di tutti / i giorni».
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LETTERA APERTA A GIULIO MILANI. Caro Milani, nei mesi scorsi hai lasciato capire che t’interessa sapere cosa penso del tuo Codice Canalini (Transeuropa). Questa curiosità mi lusinga; e mi scuso se non ti ho ancora risposto. Il fatto è che ero e sono in imbarazzo. Come uscirne? Senza dubbio ti fa onore lo sforzo di ricordarci la storia di Massimo Canalini e del piccolo clan variabile che ne ha accompagnato le gesta editoriali. Ti fa onore, anche perché i gruppi riuniti intorno a un capo carismatico diventano presto tremendamente litigiosi, lasciando una lunga serie di ferite: e tu, che ne sei stato parte e puoi mostrarne non poche, nonostante questo metti il dito sui tuoi errori, riconoscendo viceversa i meriti di chi non può più parlare. Qua e là, sospetto, accentui perfino un po’ troppo i tuoi brutali do ut des con un mondo dell’editoria di cui vorresti rappresentare la scheggia impazzita, e di cui a me sembri invece uno dei custodi più schietti. Ma ecco, questo è il punto: il mio giudizio su quel mondo è così radicalmente diverso dal tuo, che temo non si possa trovare nemmeno un linguaggio comune per discuterne. Anni fa mi è capitato di scrivere che lo stile bombastico col quale fustighi l’industria letteraria egemone – a entrambi sgradita – rischia di fare di te l’opposizione di sua maestà a una tale industria. Ora, nel mondo di ieri dell’editoria che rimpiangi, quello stile era invece abbastanza tipico: e lo trovavo deprimente anche quando stava al governo. Come vedi, mi sto avvicinando alla questione del tono-Canalini, ovvero dell’impronta che, a tuo avviso, il mitico editor lasciava sulle sue creature: un mix di iperboli goliardiche, pathos da carboneria eroica, e slang tradotto – ahimè – dall’americano. A farla breve, insomma, il problema è questo. Quel mix può forse nutrire adeguatamente una grafica che si vuole insieme alternativa e glamour (anche la copertina del tuo libro è bellissima); ma non può nutrire i testi che stanno dentro l’involucro. E non è una cosa che penso oggi. Ai tempi della tua leggenda canaliniana, io c’ero. Ero, anzi, un possibile target dei prodotti di Canalini. Ma con me non hanno mai funzionato – a eccezione dei pochi veri autori che si trovavano nell’ambiente per una pura coincidenza spaziotemporale, ma che erano del tutto estranei a quel tono (Severini, Piersanti). Mentre circolava la narrativa neogenerazionale e giovanilista, artificiosamente scapigliata, e mentre all’interno della stessa dialettica s’imponeva quella avversaria dei cannibali; mentre i più vari filoni si esaurivano poi nei patetici polpettoni scolastico-pop del dopo 11 settembre, e mentre dilagava la retorica degli editor come sergenti di Full Metal Jacket, Oshi col tappetino o tecnici di Formula Uno – io consumavo un’adolescenza di provincia: ma a tutte queste merci non ho mai creduto. Nemmeno a quindici anni. Non ci ho mai creduto, e avevo ragione. Come avevo ragione avvertendo quello strano sentimento che è l’imbarazzo per altri. C’era infatti, in quella letteratura, la stessa retorica goffa, lo stesso bovarismo aprioristico, ritmico e ideologico che c’è nel rap. Così ora, dopo aver letto il tuo Codice, confermo la mia vecchia opinione. E aggiungo che la storia di quel milieu può sì dar vita a un buon romanzo tragico-grottesco, ma non nella prospettiva apologetica che tu hai scelto. Il vero tema del romanzo-reportage ancora da scrivere, caro Milani, sarebbe invece il seguente: il dramma buffo, e terribile, di gente che mentre crede di fare spregiudicatamente la Storia fa solo la Pubblicità Alternativa di un lustro, riproponendo in un’ennesima variante il solito corso d’aggiornamento del medio letterato italiano che, per non guardare allo specchio i propri lineamenti peculiari e non sentirsi arretrato, dall’alba della modernità si cuce addosso improbabili vestiti d’importazione. Passata appena una stagione, la polvere che cade sulle pagine uscite da un tale milieu non è quella sublime delle avanguardie, ma quella dei Commodore 64; e magari sospettandolo, qualche essere umano più o meno “uscito dal gruppo”, anziché darsi al trekking o al romanzo storico da regaz si logora a poco a poco, fino a morire per davvero a causa di una mistificazione goliardica. Morale: non si è stati sul serio sperimentali, ma non ci si è nemmeno imposti come settore vittorioso di un’industria culturale che divora o “gozzanizza” troppo rapidamente i suoi figli cinici a metà; e allora resta soltanto una caricatura di ciò che volgarmente si vuole chiamare mainstream. Oppure, per coloro che sono riusciti a rimanere nella zona di visibilità, resta l’attaccamento a sempre nuovi pretesti (vedi il destino di molti ex cannibali) con cui s’insegue affannosamente la cronaca editoriale di un mondo in declino. In un certo senso, caro Milani, il tuo stile bombastico è vero: ma nel senso che rappresenta gli stereotipi semplicemente esibendoli, un pezzo dopo l’altro, senza filtri. Così, nel Codice, ogni minimo evento viene descritto come fatale; tutto è uno spartiacque decisivo (di cosa?), una «sfida alla sopravvivenza» o un «pugno nello stomaco» (a chi?). Tutto è leggenda, e tutto sembra battuto in Caps Lock. Naturalmente il protagonista demiurgo è una sagoma diabolica e straziante, un maniaco-depressivo autodistruttivo e geniale, «una specie di Dr. House delle lettere: ironico e violento, ma infallibile» sempre a caccia di misteri (irrilevanti, come quelli sulla fidanzata di Tondelli). Ma il varco che quella storia avrebbe aperto, caro Milani, non riguarda la creatività nella sua accezione più nobile. Quel varco è invece un imbuto che rigetta la critica; e quello stile un punkettismo che esclude ciò che sarebbe veramente scomodo e “asociale”. Parlo degli anni Ottanta-Novanta che hanno risuscitato la narrativa nella forma della sottocultura. Come in tutte le sottoculture, sono allora venuti in primo piano gli slang deprimenti e le recite di tipi che per darsi un’identità hanno bisogno di fingere un mestiere “cazzuto”, da “fottuti pugili”, da maestri di arti marziali o da sciamani in cravattino dandy. Mi dispiace dirti tutto questo, vecchio mio. Mi dispiace, tanto più che meriti l’onore delle armi: perché tu almeno, pur nel tuo modo arruffone, dialoghi con tutti; mentre in genere, chi è cresciuto in quel mondo editoriale comincia appena adesso a bussare alla porta di avversari ai quali, finché aveva potere, non avrebbe mai concesso la parola. Mi dispiace, sì; ma non mi sembra di essere poi troppo severo. Perché quell’ambiente ha già raccolto fin troppa attenzione. Ribadisco: io c’ero, e ricordo in presa diretta la mediocrità dei suoi protagonisti. I quali oggi vengono perfino premiati con una canonizzazione manualistica. Ma ciò avviene solo perché, in modo rozzissimo, esibivano le insegne d’epoca a ogni riga, come chi volesse rivolgersi a un sordo. I compilatori di manuali hanno quindi gioco facile nell’indicare nei libri di giovanilisti o cannibali dei simboli storico-letterari dei decenni Ottanta o Novanta; ma hanno anche torto, perché si tratta appena di indici sociologici. Questo cedimento alla falsa storia, in nome della didattica, è il vero patto col diavolo, che si presenta con la maschera del facilitatore. Ed è anche l’unico carattere davvero luciferino di una vicenda che per il resto mette soprattutto una gran malinconia, o se preferisci un magone felliniano – nel senso dei personaggi però, non dell’artista.