Questa conclusione d’anno è parsa una specie di à rebours venticinquennale: siamo tornati a parlare di editoria elefantiaca, di monopoli e di (assenza di) antitrust, di fiere editoriali, di bibliodiversità. Quest’ultimo concetto, come ha chiarito in un’intervista-video disponibile su YouTube Silvia Costantino (co-responsabile editoriale di Effequ), è passato dall’idea degli editori indipendenti di imitare la biologia nella coltivazione di specie differenti per rinnovare i terreni di coltura al suo esatto opposto, ovvero una produzione sempre più vasta e meno varia che si pretende sostenga anche i piccoli editori (mentre il fatturato, come spiega sempre la Costantino nella stessa intervista – ma ben prima di lei il mai dimenticato André Schiffrin –, si calcola sulla distribuzione e sul prenotato e non sulle vendite effettive, ciò che consente ai grandi editori di tutelarsi meglio dei piccoli, potendo fare massa e paracadutarsi con una produzione incomparabilmente maggiore). Non so se ci siano speranze sul lungo termine per la cosiddetta piccola e media editoria, o quella che si chiamava indipendente e che abbiamo scoperto sempre più dover dipendere, invece, dalle stesse logiche di promozione dei grandi marchi.

Eppure sono diversi anni che ci andiamo ripetendo, almeno noi della nicchia poesia, che le opere più interessanti non vengono più dalle grandi collane, ma da editori minimi e minuscoli. Nella nicchia poesia, tra l’altro, l’attenzione all’a capo come marca di distinzione è sempre meno fondativa, e come da un ventennio ci insegnano i cugini francesi sarebbe assai più produttivo cominciare a parlare di scrittura o meglio ancora di scritture per dar conto della miglior produzione circostante. Quindi, al di là del genere, facciamo un giro tra le più interessanti esperienze di scrittura (e finanche di non-scrittura, perché molto si trova ormai esclusivamente in rete, andando dal performer a pieno servizio Alessandro Burbank al raffinatissimo progetto multimediale di Ophelia Borghesan), al posto dei consigli di lettura natalizia oppure della classifica di fine anno.

Un anticanone, laddove il canone, proprio come la bibliodiversità, si è rivolto nel suo contrario e tutto quello che è diventato obbligatorio leggere se si vuole rimanere nel discorso culturale mainstream è ciò che invece varrebbe la pena lasciare alla sua “impermanenza”, per dirla appunto con un poeta, Milo De Angelis. Da cui peraltro parto, perché la sua pregevole – come si dice formularmente ma in questo caso è più vero del vero – traduzione da Baudelaire ha avuto minor risonanza di quella lucreziana, chissà poi perché: misteri dell’algoritmo. L’editore stavolta è grande, anzi è l’Editore, Mondadori, che come si vede ha fatto anche cose buone, dunque non è che a priori ci piaccia o non ci piaccia la nicchia. Forse dovrebbe, allo stesso modo del ricco parente torinese Einaudi (o Hey Naudi, come scrivevano un tempo i troll sperando di dargli una sveglia ovvero di indurre soprattutto la storica “Bianca” a guardare al mondo poetico con meno passione per il regressivo e il desueto), affacciarsi oltre gli asfittici parapetti dell’orticello lirico, sforzandosi di acquisire esperienze ormai pluriventennali che faticano a trovare spazi al di là della piccola e minuscola editoria: ad esempio i saggi e le poesie di Jean-Marie Gleize e Christophe Tarkos, padri o fratelli maggiori dell’area di ricerca e in generale della poesia sperimentale del Duemila, li traducono Benway Series e Tic edizioni che, come si diceva una volta, alzi la mano chi li ha mai sentiti nominare – zero mani alzate, ad esempio, nei miei corsi di poesia, dove se chiedo nomi di viventi svettano Alda Merini (rip!) e Franco Arminio, e questo perché voglio scordarmi di Sole e Catalano. Eppure un tempo si traduceva Ponge, e soprattutto Beckett, che oggi torna a splendere di pregio e vividezza grazie al Meridiano mirabilmente curato da Gabriele Frasca. Il quale, peraltro, ne dettaglia l’insuccesso editoriale ai suoi tempi: ci piaccia o no ammetterlo, uno dei più grandi autori del Novecento mondiale, a teatro, d’accordo, si portava, ma in libreria fatturava pochissimo.

E allora, gli esempi virtuosi di editoria di ricerca oggidiana? Eccoli, a partire da un editore più che di nicchia ignoto ai più, ovvero Hopefulmonster, che ha pubblicato la vera sorpresa, per me, nella fiumana annuale del pubblicato: Clic di Mario Giorgi, un monologo per l’appunto beckettiano, “accennatamente ospedaliero” (come scrive Dario Voltolini, direttore della collana Pennisole, che Giorgi è andato tignosamente a stanarselo da un silenzio almeno decennale), un denso e ridottissimo romanzo pieno di agudeza (“e dunque la vita come un mandato di comparizione”), fervore psicologico, freschezza di lingua e scorrevolezza del dettato: un libro che ti tiene incollato dalla prima all’ultima parola senza avere una trama e dei personaggi canonicamente implicati in vicende serialmente riprodotte, un vero miracolo della penna. Ed è tra l’altro da recuperare anche l’exploit di Giorgi al Premio Calvino, a metà degli anni Novanta: quel Codice edito da Bollati che, come ha osservato in una occasione pubblica lo stesso Voltolini, un tempo si poteva interpretare pensandolo come il codice genetico, perché il dibattito su questo tema era più vivo, mentre oggi rimanderebbe a un coté telematico, senza peraltro perdere nulla della sua enigmaticità e originalità e, con una categoria che non si lesina – spesso a sfregio –  nei social, genialità.  Nella stessa collana, che pubblica per lo più racconti lunghi o romanzi brevi o comunque libri non classificabili (come quello di Raul Montanari sulla pesca o quello di Aloia su un condominio desperationis), da segnalare anche Brasilampi di Marta Cai, proprio per l’originalità della forma: sono racconti, sono flash, sono bozzetti relati o irrelati? In realtà sono proprio quello che enuncia il titolo: lampi, barlumi di esistenze varie, pulsazioni dal Brasile, che l’io narrante intercetta e trasfigura con uno slancio finanche maggiore rispetto al dipietrantoniesco Centomilioni, che pure le ha conferito notorietà (soprattutto grazie al buon posizionamento a una delle recenti edizioni del Campiello).

Gianluigi Simonetti, nel pezzo-strenna uscito su ttL de La Stampa, tra i suoi consigli ha inserito assai meritatamente  di Broggi, Tic edizioni, libro che non può dirsi prosa né poesia senza violazione patente dell’una (per l’aggirato storytelling) o dell’altra (per la scansione non tipicamente versale) e che chiamare semplicemente scrittura sarebbe in effetti un guadagno per tutti, soprattutto per chi vuole “conoscere e divertirsi” secondo la stessa definizione di Simonetti dell’esperienza di lettura.  Questo libro però non è un balzo sulla sedia per chi ha seguito l’autore nelle uscite in blog come Le parole e le cose o Nazione indiana, e magari lo apprezza sin dalle Avventure minime di dieci anni fa o dal libro collettivo Prosa in prosa dell’ormai pleistocenico 2009. Il libro-choc di Broggi mi pare invece essere Idillio, uscito per un altro piccolo editore, Arcipelago, nella collana Lacustrine, ottimamente diretta da Renata Morresi: un saliscendi di forma e sostanza che si consegna a una vertigine visionaria (a partire dalla configurazione testuale installativa e narrativa insieme) mutuando e torcendo il principio del page-turning in una cavalcata intro ed estroversa insieme, con un finale che davvero mozza il fiato (quasi alla lettera, per chi leggerà). Tic edizioni che abbiamo già due volte convocato è diretta eroicamente da un editore intelligente e lungimirante come Emanuele Kraushaar, che quest’anno ha esordito come poeta in Tennis (edizioni sartoria utopia), un libro malinconico e ironico (due tratti che appartengono all’Arminio che precede l’ubriacatura social e televisiva, quello di Cartoline dai morti che oculatamente Nottetempo riporta in libreria in versione aggiornata), che si può epitomare in questi versi: “cerco qualcosa come tutti/ trovo una felicità da cartone animato”.

L’ironia è oggi la grande assente dagli scaffali e nei cataloghi editoriali, che se la concedono solo nei generi di massa e/o inconfettata di fucsia, come per il sorprendente libro di Gioia Salvatori, attrice ma soprattutto autrice comica dalla lingua caustica e finto-ingenua, che Baldini& Castoldi punisce con un titolo fuorviante (Avere una brutta natura) e una copertina imbarazzante. Si tratta invece di un esperimento riuscitissimo di narrazione erratica che toglie ogni dubbio preconcetto su qualcuno che fa qualcosa in altri campi e poi decida di scrivere un “romanzo”: definizione impropria ma alla fine chi se ne frega, come diceva un amico critico dei libri di Trevisan, che peraltro mi fece scoprire in tempi non sospetti. (Trevisan che nella rivisitazione postuma in attitudine proscinetica e tardivamente omaggiante è diventato in effetti un autore quasi solo comico, cosa che non manca di sorprendermi, pensando caso mai al grottesco che proprio da Beckett – più che da Bernhard, la cui influenza sulla sua scrittura è stata decisamente sopravvalutata, pensando al complesso dell’opera- mutuava).

Dicevamo, tornando al presente, di Gioia Salvatori, attrice e autrice che fa succedere cose con le parole, sia che le eietti dal palco di un teatro sia che le squaderni su un foglio (o nei post di Facebook, di cui si serve come di un laboratorio), perché le parole le pensa o se le fa dettare dai dizionari di greco e di latino o, al contrario, dall’aborrito “contemporaneo”, che tanto per indulgere in questa metabolé delle parole di cui dicevamo all’inizio, non è certo il contemporaneo del Giuliani dei Novissimi (e a proposito: regalo evergreen, per gli appassionati di poesia) ma nemmeno più quello di Agamben: tra i motivi del contemporaneo che la “esasperano”, in classici elenchi di antimeraviglie, “il piatto di coccio con sopra la ricetta tipica, […] gli oggetti di design in misura di più di sei in tutta la casa […], la persona che dice io sono quel tipo di persona […] la pasta dal formato inutilmente stravagante cioè le ruote […] il maschio che la sa e te la dice, il maschio che non la sa e te la dice lo stesso e sbagliata, il misterioso e pieno di uggia, la donna che ti deve dire cosa è meglio, la donna che ti deve dire cosa è peggio”. Si dirà che gli elenchi sono a loro volta un elemento da aborrire del contemporaneo (senza nemmeno scomodare la poesia di Sanguineti): in realtà Salvatori emerge anche nell’attitudine contraria, quella aforistica: “come un Sisifo, ma di Vetralla”. “La famiglia è un’invenzione delle case farmaceutiche”. “Come Baudelaire quando camminava per Parigi”. Alternanza di escrescenze e prosciugamenti, pieni e vuoti: fare spazio, alla fine, alla malinconia proprio dove sembra volersi spingere il pedale dell’ironia. Tanti mo(n)di diversi da leggere, e nessuno che si chiami propriamente romanzo. Ma citiamolo di nuovo, l’amico: e chi se ne frega, purché leggiamo scrittura, anzi scritture.