Nel quadrante estetico di Antonio Latella la lancetta della regia non coincide tanto spesso con quella del testo. Di solito la lancetta della regia punta più avanti. L’esito è smontare i testi come delle scatolette e rimontarli secondo una precisa idea compositiva. A volte la chiave interpretativa apre porte inaspettate che sorprendono, a servizio del testo, altre volte invece dischiudono ingressi secondari meno interessanti, a servizio della regia. Quando la lancetta della regia coincide con quella del testo invece abbiamo il miglior Latella, molto capace, anche da vero pedagogo, nel lavoro con le attrici e gli attori e nella struttura generale.

È successo qualche anno fa con Chi ha paura di Virginia Woolf?, capolavoro di Edward Albee, spogliato da ogni sentimentalismo e restituito alla dimensione di feroce gioco al massacro combattuto sul piano del linguaggio. Ottima la scelta degli attori nel confronto e scontro generazionale, tra cui spiccava Sonia Bergamasco, in stato di grazia, che trovava un curioso tono nella sua espressione vocale, interpretando un personaggio in stato di ebrezza. Una cifra antirealistica, ma credibile e naturale, un prolungamento sonoro delle parole e delle battute, senza scivolare nella cantilena, ma arrochendo la voce in circonvoluzioni che enfatizzavano e straniavano senza parodiare.

Qualcosa di simile, anche se con minor vigore, si è riscontrato nell’ultimo lavoro, La locandiera, che Latella restituisce con sensibilità contemporanea, pur lasciando sostanzialmente intatto il testo. Niente parrucche, nessun ventaglio, assenza di crinoline, i personaggi indossano abiti di oggi e la scena è priva di arredamento e di oggetti,

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