Pubblichiamo l’intervento che Walter Siti ha recentemente dedicato a M. L’ora del destino di Antonio Scurati all’interno di un ciclo di incontri con critici letterari organizzato dal Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux di Firenze. Intitolato “Stroncature”, e svolto nell’ambito dei cosiddetti “Martedì del Vieusseux”, il ciclo s’interroga sul senso e le funzioni della critica oggi («Dov’è finita la critica letteraria? Stroncare si può? Perché il giornalismo culturale ha messo al bando uno dei suoi generi più audaci?»).

Se c’è una cosa che non si può dire di Antonio Scurati è che non abbia consapevolezza teorica di quel che scrive e del perché lo faccia così. Una consapevolezza accanita e perfino esagerata fin dal suo primo romanzo del 2002, Il rumore sordo della battaglia, e soprattutto dalla riscrittura del 2006 dotata di una postfazione intitolata La letteratura dell’inesperienza, presto trasformata in libretto autonomo. Il romanzo, nella sua prima edizione, alternava capitoli sulle principali battaglie in Italia tra Quattro e Cinquecento e capitoli sull’autore un po’ perplesso che stava tentando di raccontare, oggi, quelle stesse battaglie. Un’operazione sperimentale, diciamo d’avanguardia. Nel 2006 Scurati decideva di eliminare il “metalivello” del romanzo, quindi i tormenti presenti dell’autore, ma aumentando la posta: non c’è più nessun bisogno, sosteneva, di un metalivello perché in realtà, ormai, ogni romanzo è romanzo storico. Questo suppergiù il ragionamento: siccome non si esperisce più la realtà ma solo la riproduzione mediatica e virtuale della realtà, anche le vicende personali o relazionali devono essere raccontate ponendo in mezzo un diaframma, quindi ogni romanzo concepisce se stesso come storico, che lo voglia o no. Posizione che era frutto di vaste e serie letture, da Benjamin a Foucault, a Debord con la sua società dello spettacolo, e il concetto di iper-realtà di Baudrillard (la guerra vista in televisione) e le riflessioni americane sulla cultura di massa. Profonda critica anche della “finzione” come base necessaria del romanzo (quindi paradossale e radicale revisione del famoso saggio manzoniano sulla impossibilità di componimenti misti); proporsi con coerenza il compito di «avvelenare il piacere dell’immaginario», visto che il Potere si fonda oggi proprio sulla confusione tra reale e fittizio. Nessun meta-pop dunque, ma opere predisposte per il grande pubblico, romanzi-documentario senza un solo momento di invenzione, rigorosamente riscontrati sui fatti, con un montaggio sapiente e ironico di lettere, telegrammi, intercettazioni telefoniche, dispacci militari, discorsi pubblici e diari privati. E nacque il ciclo di M. «Si piangono più lacrime», diceva Teresa d’Avila, «per le preghiere esaudite che per quelle respinte».

Se di fronte a un esito farraginoso e deludente l’autore sorge a dichiarare che proprio così lo voleva, al reato di bruttezza non fa che aggiungere l’aggravante della premeditazione

Gli scrittori sono gli ultimi a poter parlare dei propri libri, le loro dichiarazioni teoriche sono più sintomi che segni; Freud le classificherebbe come formazioni di difesa. La prima cosa da fare, dunque, è leggere quelle dichiarazioni a contropelo, confrontandole coi risultati. Se di fronte a un esito farraginoso e deludente l’autore sorge a dichiarare che proprio così lo voleva, al reato di bruttezza non fa che aggiungere l’aggravante della premeditazione. Che dire allora dei risultati di L’ora del destino, il quarto (e finora ultimo) volume scuratiano sull’epopea di Mussolini, un romanzo-documentario dove per più di seicento pagine ci si rifiuta di entrare nell’intimità del protagonista e nei suoi pensieri più umani e quotidiani, dove l’invenzione è ridotta al minimo indispensabile e dove le parole dei pochi scheletri di dialogo provengono quasi sempre dai documenti prodotti alla fine di ogni capitolo? Inconcusso nel proposito di non concedere al lettore nessuna identificazione emotiva, Scurati ci appare come un eroe alfieriano che si fa legare alla sedia: «volli, fortissimamente volli». Io, per resistere fino in fondo, ho dovuto cercare un po’ di respiro in un breve episodio di Guerra e pace che molti ricorderanno: Napoleone sta assistendo dall’alto di un colle alla battaglia di Borodino, arriva un attendente e annuncia «i russi hanno subito molte perdite ma insistono ad attaccare» – Napoleone è stanco, vorrebbe essere altrove, non ne può più di carneficine, dice in francese «ils en veulent encore», ne vogliono ancora e allora dategliene ancora, ma ha fastidio anche di se stesso e dei propri ordini; Napoleone non è nemmeno il protagonista del romanzo tolstojano, ma in quella paginetta sono entrato nella sua testa più che in quella di Mussolini nelle oltre seicento pagine di Scurati.

Nell’“Ora del destino” l’ideologia è data come sicura, si sa fin dall’inizio dove sta il bene e dove il male; il male esiste, anzi dilaga, ma non si ammette che possa prendere la parola

Anche Brecht, com’è noto, voleva evitare che lo spettatore si identificasse coi personaggi e aveva adottato quel meccanismo che conosciamo come “straniamento”: ma lo faceva

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