Fa parte dello strazio che l’ossessione per il ciclismo impone agli appassionati il dover rispondere, prima o poi, alla solita ricorrente domanda: cosa ci sarà poi mai da guardare, cosa ci si trova di bello, visto che tutti pedalano insieme per ore per scornarsi infine negli ultimi trecento metri. E per anni ci è toccato impantanarci in complesse spiegazioni tattiche, dissertare sui ventagli, rievocare aneddoti curiosi, eccitarsi per gli sporadici soprassalti di emozione che il ciclismo regala, forse senza crederci neppure troppo: perché in realtà volevamo solo chiedere ai molestatori di turno che ci lasciassero in pace, sul divano, nel consumarsi delle ore e della noia.
Poi il destino ha deciso evidentemente di ripagare gli amanti di questo sport derelitto per il martirio così a lungo sopportato, ed è venuto in loro soccorso. Ed ecco, all’improvviso, la stagione più felice di sempre del ciclismo: ecco Pogacar che stacca tutti a 100 chilometri dall’arrivo del mondiale per andarsi a prendere la maglia iridata; Vingegaard che lo stana a 70 chilometri dall’arrivo sulle Alpi, e lo logora per due ore prima di sfiancarlo; e poi le fughe scriteriate di Van der Poel alla Tirreno-Adriatico, arrivando vincente e stremato, in crisi di freddo, senza neppure riuscire ad alzare le braccia. Venitecelo a dire ora, che non succede mai niente.
Una nuova epoca eroica del ciclismo. Certo, senza il romanticismo dei pionieri coi copertoni incrociati sulle spalle, e anzi con la dittatura dei potenziometri, una ricerca della perfezione dei materiali che manco la NASA, lo sproloquiare sui social di watt pro chilo e di capacità aerobica, biomeccanici e preparatori atletici venerati come oracoli: però davvero il Dio del Ciclismo ha deciso, chissà perché, di affollare questa stagione di un numero di fenomeni che in altri tempi ne sarebbe bastato uno per lustro, per decennio, e lo spettatore sul divano si sarebbe comunque ritenuto appagato. Ma è pure indubbio che questo continuo baluginare di imprese, di scatti a ripetizione e di attacchi funambolici, ha sciaguratamente avvicinato il ciclismo allo Zeitgeist di questi anni: sempre tutto accelerato, il piacere ricercato solo nella convulsione continua degli accidenti, mai un attimo di tregua.
Nell’epoca in cui anche il ciclismo, perfino il ciclismo, vive di ritmi sempre sincopati e dell’obbligo della frenesia, questi 300 chilometri quasi tutti impregnati di noia ogni anno, a ogni inizio di primavera, ricordano che la resa alla modernità dei tweet e dei reel non è una condanna inevitabile
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