Nel mondo di oggi la vita virtuale viene sempre di più a sostituire la vita reale e lo spazio dell’architettura si trasforma di conseguenza. Il filosofo Miguel Benasayag definisce il momento in cui stiamo vivendo l’epoca delle passioni tristi, il suo sguardo descrive un paesaggio sociale devastato dal neoliberalismo, dominato dall’individualismo, dal mito della prestazione e dalla competizione serrata tra individui. Tutto questo crea una frattura tra gli uomini che pur restando assieme sono soli. Un intero mondo costruisce sistematicamente la nostra solitudine, l’ossessione di superarla ci spinge a cercare l’altro attraverso l’ibridazione della cultura e del vivente con la tecnologia, che provoca la dissoluzione dello spazio fisico dell’architettura.

Scriveva Roland Barthes che se avesse dovuto immaginare un nuovo Robinson Crusoe, non lo avrebbe ambientato su un’isola deserta, ma in una città di dodici milioni di abitanti, senza che potesse decifrarne né la parola né la scritturaVista da questa prospettiva lasolitudine è anche uno spazio mentale, una condizione intermedia tra il dentro di noi, l’anima, e il fuori di noi, lo spazio. Chiusura o apertura derivano dalla lettura del reale e dal confrontarsi con esso.

Per architetti e artisti la solitudine è una sospensione di tempo volontaria, e il suo raggiungimento coincide con l’istante della creazione artistica. E se penso alla solitudine come luogo fisico penso proprio al lavoro di un architetto, John Hejduk, e di un artista, Absalon.

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