I romanzieri esordienti (o quasi) sono come ordigni: non c’è destino peggiore per loro che rimanere inesplosi, non creare scompiglio. Due anni fa l’editore Sellerio aveva puntato su Bernardo Zannoni (classe 1995) e aveva vinto la scommessa: I miei stupidi intenti era una parabola sulla lotta per la vita, sulla cultura come linguaggio fallimentare per venire a patti con la morte, raccontata calandosi nella mente di una faina. Dietro quell’apologo sulla sopravvivenza c’era una visione disturbante del mondo. Ma era anche evidente la confutazione allegorica delle maniere in cui oggi si rappresenta chi ha vent’anni o poco più: come una generazione ipersensibile, idealista e senza artigli, inadatta alle sfide del mondo. Un paio di mesi fa Sellerio ci ha riprovato cambiando generazione, con La ricreazione è finita di Dario Ferrari (classe 1982), secondo libro dell’autore dopo La quarta versione di Giuda (2020). Ci ha puntato a buon diritto, perché la ricezione finora è stata importante (a inizio febbraio è arrivata la consacrazione di Antonio D’Orrico su «Sette»). Ma i tredici anni di distanza tra Ferrari e Zannoni cambiano le premesse dell’affresco generazionale. Al centro di La ricreazione è finita c’è Marcello, dottorando viareggino in letteratura all’Università di Pisa, che svolge una tesi sullo scrittore e terrorista Tito Sella attivo negli anni Settanta, assegnatagli dal professor Sacrosanti, temuto barone dell’ateneo pisano. Quella di Ferrari non è una storia di lotta: si racconta un’affinità tra inconcludenti, si abbozza l’autoritratto di una generazione di randagi e spatriati (siamo nel territorio di altri romanzieri della stessa età, e di uguale o maggiore successo l’anno scorso, come Mario Desiati e Marco Amerighi).

La forza del libro sta nell’architettura e nelle dinamiche di senso che se ne sprigionano. Se non parlerò dello stile, è perché non c’è molto da dire

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