Nel suo saggio del 1961 Menzogna romantica e verità romanzesca, René Girard ha illustrato genialmente i modi in cui i nostri desideri, che crediamo spontanei, prendono invece forma dall’imitazione del desiderio di un altro, e quindi dal desiderio di essere un altro. Questo, secondo lui, è il vero tema dei grandi romanzieri che in situazioni e fasi storiche diverse rappresentano tutti le vicende attraverso le quali un oggetto diventa desiderabile in quanto è già desiderato. Il romanzo è il genere principe della modernità: ed è appunto in epoca moderna che si registrano gli effetti più profondi e catastrofici del processo. Quando s’indeboliscono la fede socialmente condivisa e la sua proiezione istituzionale Ancien Régime, la figura su cui gli europei modellano le loro ambizioni comincia a non essere più divina, o soltanto poetica, ma fin troppo umana e conosciuta. Più avanzano la secolarizzazione e la democratizzazione, più all’imitazione di Cristo, o a quella donchisciottesca dei cavalieri da libro d’avventura, si sostituisce l’imitazione del proprio prossimo. Del resto, se al nostro inguaribile romanticismo Don Chisciotte può apparire un eroe, Girard ci ricorda che al contrario è già un bovarista come la Emma di Flaubert o la proverbiale casalinga di Voghera ipnotizzata dagli spot.
Girard non parla della pura letteratura ma della vita, sia personale che collettiva: a suo avviso, individualismo e nazionalismo nascono dalla stessa fame di trascendenza o di sacro che i moderni, abbandonate le credenze nell’aldilà, proiettano sul contesto mondano. In questo quadro, un luogo di metamorfosi decisiva del bovarismo estetico e politico è naturalmente la Rivoluzione francese. Distrutta la monarchia “teologica”, i giacobini, ispirati da Rousseau, si travestono da spartani o da romani della repubblica. La politica diventa un teatro senza confini, un rito o uno spettacolo all’aperto come quelli descritti nelle pagine rousseauiane, che preparano sia le parate dei regimi sia gli happening delle avanguardie. Sorge così il primo bovarismo istituzionale moderno, che rimpiazza il Dio della tradizione con la Dea Ragione o con l’Essere Supremo.

Alcune conseguenze sono sinistre. Le riassume memorabilmente nel 1819 Benjamin Constant, cui faranno eco vent’anni più tardi Marx ed Engels nella Sacra famiglia. Confondere i costumi di una polis schiavistica antica – dove il controllo sociale ha per contrappeso la partecipazione di ogni uomo libero al potere – con un vasto Stato moderno fondato sulla rappresentanza e l’economia borghese, vuol dire porre le basi di una società totalitaria. Sul bovarismo successivo, sempre Marx ha lasciato un testo significativo fin dal titolo, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, che racconta il colpo di Stato di Napoleone III come una parodia farsesca della tragica ascesa del Napoleone “originale” (modello di tanti giovani megalomani del diciannovesimo secolo). «Caussidière invece di Danton, Louis Blanc invece di Robespierre, la Montagna del 1848- 1851 invece della Montagna del 1793-1795, il nipote invece dello zio» scrive Marx: distinguendo fra i travestimenti che servono a legittimare provvisoriamente una storia davvero nuova, quelli del 1789-93, e i travestimenti che, come quelli del 1848-51, si limitano a risuscitare uno “spettro”. Un anello di passaggio fondamentale collega i sogni del Secondo Impero ai revival novecenteschi: è lo “sciopero generale” teorizzato da Georges Sorel nel 1908, mito proposto a un’aristocrazia proletaria che l’ideologo assimila ai cristiani primitivi, ai riformatori, ai montagnardi e ai mazziniani. A inizio ventesimo secolo infuria la polemica contro un dominio borghese che molti intellettuali considerano un intervallo di disgregata decadenza tra la compattezza del Medioevo e un futuro di nuovo collettivista, non meno sanguinoso ma tecnologico: così pensa ad esempio Ernst Jünger, e così il gesuita Naphta della Montagna incantata, in cui Thomas Mann ha raffigurato il filosofo marxista György Lukács. Eccoci dunque arrivati alla Rivoluzione d’ottobre, dove i bolscevichi provano a ricalcare le orme dei giacobini; ed eccoci specularmente al fascismo, che ritocca il littorio romano già usato in Francia, e che su un’immaginaria Italia arcaica modella delle “feste dell’uva” straordinariamente simili agli spettacoli naturali prefigurati da Rousseau.
Al crollo del regime mussoliniano, Umberto Saba suggerisce un’acuta analogia tra il cancro, malattia tipica del Novecento ovvero «tentativo sbagliato dell’organismo per ringiovanire», e il vano sforzo di rifare un Impero romano di cartapesta in pieno ventesimo secolo, sfociato in un neoplasma politico che ha ucciso l’intero organismo nazionale. Nello stesso periodo, Alberto Savinio stabilisce un’equivalenza tra estetismo, bovarismo e dittatura. Si tratta sempre di coprire il vuoto e il falso con una superficie “studiatamente bella”, di fingere la “sopravvivenza” artificiosa d’idee e forme morte, ossia di “cadaveri mascherati” che riducono a sé ciò che è vivo. Il cadavere per eccellenza è il dannunzianesimo: un emblema del male come kitsch, per dirla nei termini della contemporanea analisi di Hermann Broch. Nella seconda metà del Novecento un allievo di Broch che ha conosciuto il kitsch polveroso e criminoso del socialismo reale, Milan Kundera, ne sottolinea il carattere di rimozione. Secondo Kundera le sue menzogne, i suoi abbellimenti stucchevoli contagiano in particolare l’età immatura e lirica (Saint-Just era un poeta) che bisogna superare approdando alla verità pluralistica e mai consolatoria del romanzo. In sintesi: la storia moderna, priva di punti fermi, divora rapidamente sé stessa; e i suoi attori, per non essere trascinati nel vortice, si aggrappano agli Stili del Passato. «La Rivoluzione russa abolisce la proprietà privata e imbalsama Lenin» ha scritto nel 1979 Elvio Fachinelli.
Più i moderni – e i postmoderni – si spingono temerariamente nell’ignoto, più cercano di annullare il tempo. Più il guardaroba dei trisavoli o degli antichi studiati a scuola si assottiglia, più si va a caccia di spettri esotici: si pensi all’occultismo che affascinò certe élite fasciste e naziste, o a quel fantasy che testimonia meglio di ogni altra subcultura la divaricazione tra un’irrealtà ideologica dove tutto è possibile e la brutale concretezza della vita. Non a caso, oggi a contendersi Tolkien sono gli intellettuali velleitari della sinistra nerd e i militanti della festa di Atreju.