Ricordo il mio manuale di storia delle superiori. Al colonialismo italiano non era dedicato un capitolo a sé stante, ma uno di quegli specchietti sintetici di poche righe, con una mappa dell’Africa Orientale Italiana e l’immagine di un ascaro. Sono passati un po’ di anni, ormai; i manuali sono migliorati, qualche tabù è stato vinto. Ma affrontare il tema del colonialismo italiano nelle scuole superiori è ancora complesso, schiacciato com’è, nei programmi ministeriali, tra Risorgimento e Grande Guerra, tra fascismo e Seconda Guerra Mondiale. 

Una sbrigatività didattica sintomatica, che si ripercuote inevitabilmente sull’opinione e il dibattito pubblico, andando a creare quello che è, forse, il più clamoroso caso di rimozione collettiva della storia italiana. In pochi, credo, saprebbero dire con precisione quando sono nate le colonie italiane, o perché ci interessasse conquistare l’Eritrea. In pochi saprebbero decrittare l’acronimo “AFIS”, o indicare sull’atlante la posizione, anche soltanto vaga, di Asmara. 

È uscito l’anno scorso, per Carocci, un ottimo e agile saggio, intitolato Storia del colonialismo italiano e firmato da Valeria Deplano e Alessandro Pes, entrambi storici dell’Università di Cagliari. In meno di duecento pagine, il libro riesce a ripercorrere con linearità la lunga storia dell’occupazione italiana in Africa, e lo fa ponendo al centro della ricerca storica gli intrecci, spesso poco conosciuti, che legano la storia coloniale a quella nazionale. Perché, forse, il punto sta proprio qui: non si tratta di introdurre nei manuali capitoli ad hoc o di aggiungere parentesi più approfondite, ma piuttosto di capire come e perché il colonialismo sia stato parte integrante della storia italiana contemporanea.

I.G.: Nel vostro libro sostenete che la storia del colonialismo italiano sia stata imprescindibile per lo sviluppo e l’evoluzione del concetto di nazione. Eppure, come scrivete nelle prime pagine, “nonostante lo sviluppo degli studi sul tema, è ancora diffusa l’idea per cui il colonialismo italiano sia stato un’appendice ininfluente per la storia nazionale”. Perché le cose stanno così?

A.P.: Diciamo subito che non si tratta di una peculiarità italiana. Il colonialismo ha accompagnato ovunque il processo di costruzione della nazione, in tutti i contesti europei. Anche in Gran Bretagna e in Francia – due paesi che, com’è noto, hanno una storia nazionale molto più lunga rispetto a quella italiana. Perché allora, in Italia, è stato letto come un’appendice della storia nazionale? Ciò è avvenuto innanzitutto nell’immediato Dopoguerra, quando l’Italia sentiva più forte il bisogno di liberarsi dal peso del suo passato coloniale. Il colonialismo è stato da una parte esaltato (il mito del paese civilizzatore e dell’italiano “buon colonizzatore”); dall’altra è stato messo da parte rispetto alla storia nazionale, ovvero è stato raccontato come un momento non connesso alla costruzione degli italiani e dell’italianità. Da qualche tempo ormai, direi dagli ultimi venti o trent’anni, si è iniziato invece a mettere in relazione la storia coloniale alla storia italiana. Da questa prospettiva storica, che è anche la nostra, fare storia del colonialismo non significa soltanto analizzare e ricostruire i modi in cui l’esercito italiano ha occupato altri territori; significa capire come gli italiani sono stati coinvolti in quelle occupazioni, come hanno gestito le loro colonie e come questa storia è stata loro raccontata. Non ci può essere soluzione di continuità tra storia nazionale e storia coloniale: l’una serve a leggere l’altra, e viceversa.

V.D.: Noi italiani abbiamo avuto gioco facile a costruire questa narrativa. Finché l’imperialismo è stato visto secondo il paradigma britannico o francese, ovvero come un’espansione riuscita del capitalismo fuori dai confini nazionali, la famosa formula di “imperialismo straccione”, usata da Lenin per descrivere il caso del colonialismo italiano, è stata funzionale alla costruzione di questo discorso. Se il colonialismo italiano viene giudicato solo sulla base di questo parametro, ovvero quello della costruzione di un sistema capitalistico integrato, allora è un progetto che è riuscito poco, e si può raccontare come una storia marginale rispetto a quella europea. Ma il colonialismo non si limita a questo. È stato un progetto di costruzione sociale, di accreditamento delle istituzioni, di formazione della nazione. Se lo intendiamo così, non regge assolutamente l’idea di una “marginalità” del nostro colonialismo.

I.G.: Partiamo dall’inizio, ovvero dall’epoca liberale. È molto interessante il collegamento che istituite fra cultura risorgimentale e cultura coloniale. Le radici di una mentalità coloniale si troverebbero già in piena epoca risorgimentale, e si radicherebbero nei valori condivisi di progresso scientifico, di civilizzazione e di curiosità verso il mondo. 

A.P.: È così, basti pensare

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