Accompagno mio padre a passeggiare. È sempre stato un gran camminatore, e andava a passo anche troppo svelto secondo mia madre che, sbuffando, se ne lamentava quando di domenica uscivamo per un giro sino a Piazza d’Armi, lui con la radiolina all’orecchio per le partite, io bambino annoiato che guardava le vetrine di corso Agnelli (c’era un negozio di costruzioni e macchinine sfavillanti – «ti vuoi muovere di lì?») o giocava con il fratello. Ma ora, da qualche mese, senza che lo si possa prevedere, ogni tanto cade. Può succedere ed è successo ovunque: in casa, dove ha rischiato di sbattere la testa contro il lavandino del bagno, in strada, dove una volta mia madre, in un lampo di intuizione, l’ha fatto sedere su una panchina alla fermata del tram, prima che per qualche secondo perdesse i sensi, poi si riprendesse senza saper dire neppure lui cosa gli fosse capitato.

A questi improvvisi svenimenti, che mio padre dice preannunciati da uno stordimento troppo rapido perché possa fare qualcosa, non ho mai assistito. Succedono, e dopo un po’ mia madre mi chiama al telefono, annunciando secca e irata:

– È caduto tuo padre.

Un giorno, in seguito a due svenimenti di fila nel giro di poche ore, lo portano al pronto soccorso, dove lo tengono in osservazione per quasi ventiquattr’ore, ma dove analisi del sangue, pressione ed elettrocardiogramma non registrano niente di irregolare. Quando esce, al vedere mia madre e mio fratello, si commuove, e ha di nuovo uno svenimento: lo sorreggono per miracolo, lo fanno sedere, poi lo riportano dentro, lo trattengono per tutta la notte, e niente: anche questa volta non trovano nulla di irregolare.

Il medico di base, il cardiologo, la neurologa prescrivono esami di ogni tipo, tutti eseguiti con scrupolo anche quando per farli bisogna andare fuori città, in ospedali specializzati. Lo racconto ad amiche e amici. I figli di medici mi riferiscono che le diagnosi possono essere le più varie, occorrono ulteriori accertamenti – ma gli accertamenti non accertano nulla, se non che il cuore e il cervello sono a posto. Altri amici, invece, aggiungono subito: ma lo sai che è capitato anche a mio padre, a mia zia? Nessuno di loro sa dire perché. Al massimo aggiungono: è una cosa con la quale devono imparare a convivere, l’importante è che non sbattano la testa o si rompano un femore.

Camminando, mio padre risponde a me che lo interrogo sul quartiere. Non ci vivo più da oltre trentacinque anni, ci torno per pochi giorni in vari periodi, ma queste passeggiate insieme a lui sono un’abitudine recente; e un po’ perché la sua presenza mi induce a misurare le distanze di tempo, riportandomi d’un tratto a quando mi teneva la mano destra perché dovevamo attraversare la strada (ed è per questo che, ancora oggi, preferisco quando cammino con qualcuno avercelo da quel lato), un po’ perché è meglio non allontanarsi troppo da casa, mi rendo conto che per anni non sono passato in certe strade, non ho visto certi palazzi (e sono rimasti immutati, o se sembrano avere proprio l’aspetto di allora è perché li hanno ristrutturati da poco?), non mi sono accorto che hanno risistemato quasi tutti i giardini. Alcuni dei negozi in cui andavo da bambino e da ragazzo sono sempre lì, con le stesse insegne, altri non ci sono più, o sono stati sostituiti, o ne sono cambiati gli esercenti: il negozio di giocattoli è troppo lontano per verificarne la sopravvivenza; il bar che si vedeva dalla camera da letto dei miei ha abbassato definitivamente le serrande, dopo averli tormentati per intere estati con la musica troppo alta e gli schiamazzi (che poi, si è scoperto, era un ritrovo di spacciatori e acquirenti); la panettiera è andata in pensione («uh, saranno dieci anni!»); il minimarket è una novità piuttosto recente, non ci ho mai messo piede dentro e soprattutto avrei giurato che prima lì ci fosse un ferramenta (quindi quello che c’è poco oltre è un altro, o lo stesso che si è spostato di qualche numero civico?). Non sempre mio padre sa ricostruire con esattezza la cronologia di questi mutamenti, essendo del resto sempre stato così impreciso e disattento alle date e ai nomi da diventare una leggenda familiare («sì, mo stai a sentire a lui», commenterebbe mia madre); e anche per effetto di questa insicurezza che, non posso nasconderlo, un po’ si è trasmessa anche a me, la varietà dei tempi viene appiattita e confusa sotto gli stessi participi: chiuso, passato, finito. 

La strada in cui abitano i miei arriva vicino a uno dei cancelli della Fiat Mirafiori, e sino a una certa data era impossibile trovarci parcheggio, piena com’era delle macchine di operai e impiegati. Ma ora, è quasi deserta. L’edicola che stava all’angolo ha chiuso anche per quello, prima ancora della crisi generalizzata che ha colpito le rivendite di quotidiani a stampa: se quando ero bambino io il giornalaio si alzava alle 4 per andare a vendere al cambio di turno, con la crisi dell’industria automobilistica ha avuto sempre meno clienti, è invecchiato, ha deciso che la mattina poteva rimanersene nel suo gabbiotto e, poi, quando lui ha raggiunto l’età della pensione, nessuno ha rilevato la licenza. Il 10 non passa più in corso Tazzoli, anzi non ci sono proprio più tram e binari del tram, trasformati in un parco lineare di prati e alberi («è uno schifo, l’hanno troppo lasciato andare», si lamenta mio padre). Le tre ciminiere stanno sempre là, continuano a frapporsi alle Alpi anche se non intercettano la vista della Sacra di San Michele che, nelle belle giornate, si vede distinta anche se minuscola; ma niente più grandi pennacchi di fumo bianco, insieme a quella delle auto è crollata anche la produzione di nuvole artificiali – saranno state velenose, ma avevano un loro che. Queste cose le ricordiamo tutti e due, mio padre e io. Lui le ha viste accadere insensibilmente, o da un giorno all’altro, non so: ma le ha viste accadere. Io ne prendo nota quando ormai si sono consumate, e se l’infrequenza delle mie visite a Torino avrebbe dovuto aiutarmi a farci caso, la discontinuità mi ha distratto e ha offuscato la mia percezione: solo ora, mentre sorveglio che l’andatura di mio padre sia regolare e che il suo viso o i suoi gesti non tradiscano un malessere o il sopraggiungere improvviso di uno stordimento, tutt’a tratto e tutto insieme vedo le trasformazione degli scenari dell’infanzia, devo registrare non tanto il tempo che passa per degradare i palazzi le strade i giardini mutandoli in rovine pittoresche di intonaci staccati ed erbacce selvose, adagiandosi nella poesia metropolitana ormai abusata delle saracinesche sfondate dai calci e dei graffiti a spray sui muri; non tanto il vecchio, insomma, quanto il nuovo, i lavori di ammodernamento e restauro che incollano sulle specie del visibile qualcosa di ripulito e persino di decoroso – è la carta topografica del quartiere di adesso, se la sovrappongo a quella che ho in testa non collima punto per punto, mi costringe a misurare i diversi gradi della metamorfosi, della sparizione, dell’assenza, la mia progressiva estraneità ai posti dove sono cresciuto. 

Guardo un incrocio dove hanno sostituto all’asfalto (da quando?) una pavimentazione di ciottoli rosso mattone e neri, anche le strisce pedonali sono disegnate da sampietrini bianchi, un albero dal tronco sottile, forse un giovane tiglio, cerca timidamente di ingentilire il marciapiedi. 

– Ma qui non era così. Cosa c’era prima? Un chiosco? Ci veniva col carretto quello che vendeva i gelati?

Mio padre si ferma. Per un attimo ho paura che stia per succedere, ma no, sta cercando di fare mente locale, esita, poi sbuffa brevemente e dice: 

– Non lo so cosa c’era. Dobbiamo chiedere a tua madre. 

Quando torniamo a casa glielo chiediamo, infatti, e ce ne vuole per farle capire di quale incrocio esattamente stiamo parlando. 

– Ma dove? All’angolo con via d’Arborea? O di via Del Prete?

Ci pensa un po’ su, poi conclude, perentoria: 

– No, e chi se ne ricorda.