Alla fine degli anni Cinquanta, una ventata di rinnovamento investì vari settori della cultura italiana, ma la canzone di consumo sembrò refrattaria a questo nuovo clima e non diede segno di volersi discostare dalla sua funzione di mero intrattenimento: restò abbarbicata alla sua natura disimpegnata, dove l’unico argomento plausibile sembrava essere l’amore. Anche i riferimenti di cultura letteraria erano antiquati, come testimoniano l’uso ad nauseam di termini ottocenteschi e l’abbondanza di parole tronche, specialmente a fine verso (cuor, amor, dolor, candor e così via). La canzone italiana, a parte lodevoli eccezioni, era ancora figlia (e nipote) della tradizione melodrammatica: un’evoluzione che dalle arie d’opera di pieno Ottocento, andava fino alla più recente romanza da salotto, auspici Tosti e D’Annunzio. Si fermava lì e, sia nei contenuti sia nella forma, restava piuttosto impermeabile ai rivolgimenti culturali in atto.

Fu così, che a Torino, nel 1957, un gruppo di intellettuali e musicisti diede vita al collettivo Cantacronache, un progetto scaturito da un viaggio di Sergio Liberovici (all’epoca giovane compositore praticamente autodidatta) nella Germania Orientale, dove entrò in contatto col Berliner Ensemble di Bertolt Brecht, che gli suggerì l’idea di scrivere canzoni di denuncia politico-sociale e di critica al sistema culturale. Tornato in Italia, Liberovici coinvolse Margot (Margherita Galante Garrone, che diventò poi sua moglie), Fausto Amodei e Michele L. Straniero, che scrisse più tardi: «Delle canzonette leggere in sé e per sé non ce ne importava molto: il nostro interesse non era mercantile, ma precisamente sociologico e ideologico, e decisamente contenutistico».

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