Il 10 marzo, nel programma Les Matins de France Culture dedicato al dibattito sulla questione “I classici dovrebbero essere adattati al loro tempo?”, Tiphaine Samoyault, professoressa all’École des Hautes Études e critica letteraria di Le Monde, ha difeso la decisione dell’editore Puffin Books di modificare il testo delle opere di Roald Dahl, e ha considerato accettabile in generale questa pratica e la sua applicazione a tutte le opere del passato. Sono ben note le polemiche sulla scelta dell’editore britannico, di cui persino Salman Rushdie ha denunciato “l’assurda censura”; è nota anche la decisione di Gallimard di non modificare la traduzione francese. Il secondo intervistato nel dibattito radiofonico, Marc Weitzmann, ha fornito molte argomentazioni illuminate e illuminanti contro la nuova censura, così precise e convincenti che si potrebbe considerare chiuso il dibattito, se non fosse che le idee esposte da Samoyault sono così scioccanti, e così pericolosamente in sintonia con i tempi, che richiedono una discussione ampia e approfondita.

Gli specialisti di letteratura del XIX secolo sono stati particolarmente turbati dalla frase: «Non insegno letteratura dell’Ottocento, grazie a Dio!», che è stato il culmine di un breve atto d’accusa contro la letteratura di un intero secolo:

C’è tutta una letteratura che porta valori estremamente normativi. Quando guardi alla letteratura del XIX secolo… ho molti colleghi e amici che insegnano letteratura del XIX secolo e che trovano la cosa molto difficile all’università. Anche se non praticano la riscrittura, trovano molto difficile, ad esempio, vedere l’antisemitismo in Balzac, vedere l’invisibilizzazione delle donne o la strumentalizzazione delle donne in tutta la letteratura del XIX secolo, e trovano che sia diventato difficile. E non perché gli sia impedito di insegnare, ma perché questi testi portano valori che sono detestabili. […] Io, grazie a Dio, non insegno letteratura dell’Ottocento!, ma sento il disagio di alcuni miei colleghi che hanno difficoltà, se si vuole, a trasmettere questi valori.

Il malessere è ancora maggiore tra coloro che, avendo letto CorinneIndianaLa Femme de trente ansMadame BovaryGerminie LacerteuxNanaUne vie, così come MiddlemarchAnna Karenina Ritratto di signora, non riescono a cogliere la pertinenza della parola invisibilizzazione. E tra chi, conoscendo le affermazioni antisemite di alcuni scrittori dell’Ottocento, pensa che sia utile che i giovani lettori, i nostri studenti, ne siano informati, e che il “dovere della memoria” possa essere esercitato solo se i documenti sono conservati, conosciuti e commentati.

La letteratura parla del male, di ciò che non funziona, di ciò che fa soffrire: e questo è un suo merito

È lecito preferire la letteratura del Novecento a quella dell’Ottocento, Céline a Hugo, per esempio, o Brasillach a Zola, ma, se si è professori di letteratura, non si devono propagare immagini brutalmente semplicistiche della storia della letteratura. Abbiamo il diritto, e anche il dovere, di criticare le immagini di donne trasmesse dai romanzi che ho citato, ma non di predicare la cancellazione di questa letteratura, la distruzione della memoria, la sostituzione dei testi autentici con testi edulcorati. La letteratura parla del male, di ciò che non funziona, di ciò che fa soffrire: e questo è un suo merito.

Che cosa si vuole? Che le generazioni future non siano più consapevoli dell’esistenza del razzismo, della schiavitù, dell’oppressione nei confronti delle donne e di tutte le innumerevoli ingiustizie di cui è intessuta la storia umana? Vogliamo chiudere gli occhi, o tenerli aperti, essere vigili, critici, attenti? Samoyault sostiene che si tratta solo di cambiare qualche parola. Auguro buona fortuna a coloro che dovranno ripubblicare Sade secondo i criteri di Puffin Books.

Gli argomenti usati da Samoyault dovrebbero far riflettere. Perché stupirsi delle odierne censure – dice – visto che la “riscrittura” è sempre stata praticata? visto che la letteratura del passato è sempre stata adattata alla mentalità del presente? Ecco le sue parole:

In effetti, si teme la riscrittura, soprattutto in Francia, in nome di una sacralizzazione dell’originale che è essa stessa storica e che non è estranea neanche a un certo dominio culturale francese. Ne riparleremo… Perché in fondo la letteratura ha sempre riscritto sé stessa, la riscrittura è inscritta nel processo stesso della letteratura, gli antichi riscrivevano i più antichi ed è sempre stato un movimento abbastanza ordinario.

In primo luogo, siamo sorpresi dall’uso dell’argomento basato sull’autorità della tradizione. A questo modo potremmo legittimare qualsiasi scelleratezza: un delitto è giustificato perché è stato frequentemente commesso? Una sciocchezza cessa di essere tale perché è vecchia? Siamo stupiti che una progressista ricorra a questo tipo di argomentazione.

Paolo Tortonese,Tiphaine Samoyault,Marc Weitzmann,Balzac,Cancel Culture,caso Roald dahl,censura politically correct,peter brooks
© Hulton-Deutsch / Getty Images

Il ragionamento è capzioso anche per un altro motivo. Con il termine riscrittura, Samoyault designa diverse pratiche, che uno specialista di letteratura dovrebbe saper distinguere: la riscrittura di un mito, di una storia, attraverso i secoli (i trentotto Anfitrione contati da Giraudoux), la riscrittura secondo le norme nazionali del gusto (gli adattamenti francesi di Romeo e Giulietta che finiscono con il matrimonio degli amanti), la censura politica nei confronti di ciò che disturba un potere in atto, gli adattamenti ad usum delphini, vera e propria censura morale soprattutto sulla sessualità, e infine le traduzioni, che possono volutamente cambiare il significato di un frase.

Vogliamo tornare indietro? Oppure preferiamo scegliere liberamente che cosa leggere o non leggere, approvare o disapprovare?

Considerare tutti questi fatti come una cosa sola è davvero sbrigativo, anzi è peggio, è mettere sullo stesso piano fenomeni di creazione letteraria con fenomeni di repressione politica, giustificare i secondi con i primi. Il fatto che Racine abbia riscritto la storia di Fedra giustifica la rimozione da parte degli editori cattolici di alcuni brani di Paul et Virginie (non abbastanza casto, ai loro occhi)? Il fatto che una traduzione non sia necessariamente identica all’originale giustifica l’alterazione intenzionale del significato? Nel tradurre Dafni e Cloe, Amyot ha cancellato la scena dell’iniziazione sessuale di Cloe da parte di Licenione, perché offendeva la sensibilità dei lettori; era il 1559, si è dovuto attendere il 1810 perché una traduzione francese la restaurasse e perché i lettori che non sapevano il greco potessero giudicarla liberamente. Vogliamo tornare indietro? Oppure preferiamo scegliere liberamente che cosa leggere o non leggere, approvare o disapprovare?

Una parola è particolarmente discutibile nel discorso di Samoyault, l’avverbio sempre. No, non si è sempre censurato; no, da più di due secoli abbiamo rifiutato la censura, abbiamo difeso il diritto d’autore, abbiamo stabilito edizioni critiche, abbiamo voluto leggere testi esatti per poter esercitare su di essi una lettura critica, lucida, documentata. Da un lato il principio della libertà di espressione, dall’altra lo storicismo hanno opposto alla cancellazione distruttiva la volontà di sapere tutto e di sottoporre tutto a un esame che tenesse conto della diversità delle culture e delle epoche di produzione dei testi. Il relativismo è propriamente questa apertura verso il passato e verso l’altrove, che ci fa prendere le realtà culturali per quello che sono, proprio per criticarle, misurarne la distanza da noi, deplorarle. La lettura critica dei testi esiste almeno da quando Lorenzo Valla dimostrò l’impostura della Donazione di Costantino; è progredita tra mille ostacoli attraverso i secoli; ne abbiamo bisogno più che mai in questi giorni, inondati come siamo dallo storytelling mediatico, come giustamente ha sostenuto Peter Brooks nel suo libro più recente (Seduced by Story, The Use and Abuse of Narrative, NYRB, 2022).

Il sofisma è evidente, e tuttavia pernicioso: prima si dispiega una teoria della traduzione come deviazione inevitabile, poi si considera legittima ogni falsificazione; prima si teorizza con la genetica l’inesistenza del testo esatto e unico, poi si mettono sullo stesso piano la presa in considerazione delle varianti e la deliberata modifica dell’originale; ci si abbuffa di teorie ermeneutiche più o meno decostruzionistiche, poi si risputa la dottrina secondo cui tutte le interpretazioni sono uguali, come di notte tutti i gatti sono grigi. Questo grigiore è proprio ciò che ci opprime, e in questa notte ci rifiutiamo di entrare.

Paolo Tortonese,Tiphaine Samoyault,Marc Weitzmann,Balzac,Cancel Culture,caso Roald dahl,censura politically correct,peter brooks
© Hulton Archive / Getty Images

L’imbroglio consiste anche nella distinzione tra lettura dotta e lettura popolare. È come se si dicesse: noi, gli intellettuali parigini, possiamo leggere Gide facendo la distinzione tra il grande scrittore e il pedocriminale colonialista, mentre loro, i buzzurri delle periferie, non potranno farlo, poverini, ed è per questo che devono essere messi al riparo dalle cattive influenze. Credete ancora, come hanno creduto migliaia di insegnanti da quando è cominciata l’alfabetizzazione di massa, che possiamo trasmettere a tutti la cultura dell’élite? che possiamo insegnare a tutti l’esercizio della lettura critica? Che illusione, vi dice Samoyault, rimanete nei vostri salotti, non fate sforzi inutili, la gente pratica e praticherà sempre la lettura ingenua e sottomessa. Possiamo solo impedirgli di esporsi a cattive influenze, al massimo suggerirgli di leggere La mare au diable, anzi… meglio Cenerentola.

Si immagina il lettore, soprattutto quando è giovane, come un essere passivo, incapace di reagire, schiacciato dai valori imposti dalle opere, soggiogato dalla tesi morale o politica dello scrittore

Samoyault riconosce inoltre apertamente che la politica della riscrittura implica che dissociamo i lettori dotti, che leggono i testi nella versione originale, dalla massa a cui diamo testi annacquati. Queste le sue parole:

C’è una grande differenza tra questa letteratura elitaria, praticata in ambienti dove si sa spiegare, e una letteratura studiata nelle scuole molto ampiamente… e possiamo benissimo decidere di fare diverse edizioni dei testi, così come ci sono diverse scritture dei racconti, diverse traduzioni dello stesso testo…

Da questi ragionamenti emerge una concezione della lettura. Si immagina il lettore, soprattutto quando è giovane, come un essere passivo, incapace di reagire, schiacciato dai valori imposti dalle opere, soggiogato dalla tesi morale o politica dello scrittore. Questo va contestato su diversi piani. In primo luogo, questa rappresentazione della lettura è caricaturale, esclude la possibilità di individuare ciò che non ci piace, ciò su cui non siamo d’accordo. Sul piano ideologico, qualsiasi lettore è in grado di approvare e disapprovare. Milioni di lettori di Balzac hanno letto i suoi romanzi senza diventare monarchici.

Il significato di un’opera non può essere ridotto alla sua tesi

Poi, sul piano specifico della letteratura e distinto dalla pura e semplice ideologia, i valori rappresentati in un’opera non sono così univoci come sostiene Samoyault. Il modo proprio della letteratura di “trasmettere valori” non è quello di una predica o di un regolamento di collegio militare. L’ambivalenza cara a Freud non è un concetto vano, tutti i lettori la vivono intimamente, e tutta la critica moderna ha sondato le profondità dell’ambiguità. Il significato di un’opera non può essere ridotto alla sua tesi. Samoyault critica le opere del passato per la loro normatività, pur rivendicando il diritto alla normatività per il nostro tempo. Non vede che la letteratura, soprattutto la più grande, è insieme normativa e trasgressiva, indissolubilmente.

Sulla brutale riduzione della lettura ad un assorbimento passivo di imperativi categorici si innesta una concezione dell’educazione come complice estensione della perfidia letteraria (“trasmettere questi valori”). Il professore si rende corresponsabile degli orrori promossi da Balzac, poiché “insegna Balzac”, dubbia espressione (calco dell’inglese “to teach Balzac”?), in cui si concentra l’idea che noi professori non siamo nient’altro che le cinghie di trasmissione di una doxa dispotica. Nella realtà delle nostre aule noi non “insegniamo” Balzac, lo studiamo insieme ai giovani cui lo facciamo leggere, mettiamo il nostro sapere al servizio delle loro letture libere e personali, li alleniamo all’esercizio dello spirito critico attraverso il relativismo storico, attraverso la contestualizzazione, attraverso le teorie poetiche, linguistiche, stilistiche, narratologiche, attraverso l’interazione della nostra disciplina con la filosofia, la storia, le scienze, ecc.

La solidarietà tra l’insegnamento di una morale, di un pensiero politico, di una lingua e di una retorica era cosa ovvia nell’educazione di Antico Regime, ma nell’educazione moderna è stata spazzata via dalle ondate successive della secolarizzazione, dello storicismo romantico, della filologia positivista, poi della psicoanalisi, del formalismo, dello strutturalismo, ecc. I nuovi oscurantisti vogliono che l’educazione riacquisti la “coerenza” perduta da due secoli. Se vincono, l’università del futuro assomiglierà al seminario di Julien Sorel e gli studenti saranno felici quanto lui.

Paolo Tortonese,Tiphaine Samoyault,Marc Weitzmann,Balzac,Cancel Culture,caso Roald dahl,censura politically correct,peter brooks
© Keystone / Getty Images

Questo articolo è stato originariamente pubblicato in francese su Fabula.