Quale sia il segreto di Anton Čechov e perché, nonostante siano passati quasi centocinquant’anni dai suoi primissimi racconti, il suo genio continui a stregarci, sembra spiegarcelo perfettamente questa pagina dello Zibaldone, risalente al 4 ottobre del 1820 – ben quarant’anni prima della nascita dello scrittore di Taganrog, ma che pare sia stata scritta apposta. 

Annota Leopardi: «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, tuttavia ad un’anima grande che si trovi in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia, servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta».

È dunque una buonissima notizia che qualche editore coraggioso continui nello scavo di ricerca nell’opera di Čechov: perché difficilmente ci si tuffa nelle sue pagine, siano esse appunti, opere incompiute o scartate, senza portarsi qualcosa di prezioso con sé. È il caso di Cue Press: piccola casa editrice imolese fondata da Mattia Visani nel 2012 e specializzata in pubblicazioni teatrali che, qualche mese fa, ha dato alle stampe la prima edizione italiana completa del teatro čechoviano, curata da Roberta Arcelloni e Fausto Malcovati, con le traduzioni di Giovanni Gorla.

Abbiamo parlato di questo nuovo, importante lavoro – più di quattrocento pagine, spesso tradotte per la prima volta o riviste integralmente – e più in generale del genio di Čechov, proprio con Malcovati. Classe 1940, già professore ordinario di letteratura e teatro russo alla Statale di Milano, traduttore e critico, Fausto Malcovati è tra i massimi esperti del teatro russo del Novecento in Italia. Innumerevoli i suoi contributi come curatore: dagli scritti dei registi Stanislavskij e Mejerchol’d, ad autori come Blok, Dostoevskij, Bulgakov, Ostrovskij, e, naturalmente, l’amato Čechov. Sua la curatela, per i tipi Garzanti, di una delle migliori selezioni dei racconti čechoviani oggi in commercio. Tra le sue pubblicazioni critiche ricordiamo: Il medico, la moglie, l’amante. Come Čechov cornificava la moglie-medicina con l’amante-letteratura (Marcos y Marcos, 2015), Un’idea di Dostoevskij (Cue Press, 2021). 

I.G.: Partiamo da questo nuovo volume uscito per Cue Press. Quali sono le novità per il lettore italiano?

F.M.: Le novità sono molte. Innanzitutto c’è una nuova traduzione rivisitata del primo testo teatrale di Čechov, quello che da noi è stato chiamato Platonov, anche se in realtà non ha un vero nome. In russo è indicato col titolo Senza padre. Si tratta della prima drammaturgia di un Čechov poco più che diciottenne, un dramma lunghissimo. La traduzione è di Giovanni Gorla; io e Roberta Arcelloni l’abbiamo rivista. Si è svelato così un testo più forte, più veloce. Sarebbe importante riprenderlo.

I.G.: E poi c’è l’Ivanov, la prima vera esperienza teatrale di Čechov.

F.M.: Esatto. Il volume contiene la traduzione integrale delle due versioni di Ivanov. Čechov scrisse la prima nel 1887, e fece fiasco; due anni dopo, la seconda, che invece ebbe grande successo. È un lavoro completamente diverso, soprattutto nel finale. Se la prima versione si concludeva con un lieto fine o, diciamo così, senza tragedie, la seconda ha invece un finale tragico: un suicidio. Finora la prima versione non era mai stata tradotta in italiano. Il volume continua poi con la ripresa di Lešij, conosciuto anche come Lo spirito della foresta, che servirà come base a Čechov per Zio Vanja: anche in questo caso, l’evoluzione di alcuni personaggi risulta decisamente diversa. C’è poi un’altra novità: la traduzione di un atto unico che solitamente non è compreso nel novero degli atti unici classici, ovvero Tatiana Repina, del 1889. Un’opera strana, incompiuta, che nacque come seguito di un’omonima opera di Suvorin – editore di Čechov, nonché suo grande amico, almeno fino allo scoppio dell’affaire Dreyfus. Ci sono, in questo atto unico, personaggi che appaiono e scompaiono, un grande matrimonio religioso e una figura in nero, che ricompare all’improvviso e che si credeva morta… Si tratta di un lavoro abbastanza notevole. Non fu mai messo in scena.

Anton Čechov

I.G.: Il difficile rapporto fra Čechov e il teatro è noto. Molte sue opere sono state rifiutate (PlatonovLešij, Zio Vanja), e alcuni fiaschi sono passati alla storia, come quello del Gabbiano, nel 1896.

F.M.: È così. Platonov non andrà mai in scena; la prima versione di Ivanov sarà un grande insuccesso e verrà eliminato dal cartellone del teatro Korš dopo pochi giorni. E poi si arriva al ’96, al grande fiasco del Gabbiano. Ma non è stata colpa di Čechov. Il gabbiano fu messo in scena per la prima volta dalla compagnia del grande teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo: un teatro accademico importante, molto noto. La messa in scena contava attori di prim’ordine. Ma si decise di debuttare con questo nuovo testo di Čechov, di cui il pubblico non sapeva assolutamente nulla, proprio la stessa sera di uno spettacolo comico. Il pubblico si aspettava di ridere e si contrariò. Lo spettacolo venne fischiato ampiamente. A quel punto Čechov giurò a se stesso di non scrivere mai più per il teatro. Se non è andata così, lo dobbiamo anche a un personaggio fondamentale, Nemirovič-Dančenko, un suo grande amico commediografo e direttore di una filarmonica. Che insisterà a lungo, con Čechov, per una ripresa del Gabbiano, facendogli una promessa: se sarà di nuovo un fiasco, me ne assumerò totalmente la responsabilità. La storia è nota: grazie alla collaborazione con Stanislavskij, il successo sarà strepitoso. È l’inizio del cosiddetto “teatro d’arte”, quello che da allora, fino a oggi, è conosciuto come il teatro Stanislavskij-Nemirovič.

I.G.: Leggendo i carteggi di Čechov emerge tuttavia un rapporto difficile con le scelte registiche di Stanislavskij…

F.M.: Čechov non è mai stato soddisfatto dalla resa dei suoi testi nella versione Nemirovič-Stanislavskij. Il Teatro d’Arte intendeva le sue drammaturgie come pesanti drammi sociali; Čechov invece è uno scrittore leggero, ironico; fin da Zio Vanja chiede loro di rendere i suoi testi meno drammatici e di considerarli, come lui, commedie. Voleva più leggerezza, una recitazione meno tormentata, un’atmosfera di leggera tragicità. In Čechov (pensiamo agli atti unici, ai suoi racconti) c’è sempre questo doppio tono, che nelle versioni classiche di Nemirovič e Stanislavskij non c’è mai stato.

I.G.: Era Čechov a non aver capito il suo stesso teatro, o sono stati loro due a non capirlo?

F.M.: Io direi che sono stati i secondi ad aver pesato, con le loro messe in scena, sulla ricezione futura di Čechov. Ciò sta venendo fuori grazie alle regie degli ultimi anni, dove c’è tendenzialmente più attenzione all’ironia, più voglia di lasciare i dialoghi intatti nella loro leggerezza čechoviana. A partire dal 2000 in poi, grosso modo, le regie dei drammi di  Čechov sono completamente cambiate. Čechov è tornato a essere lo scrittore che è sempre stato: pieno di ironia e velocità.

I.G.: E dire che si pensava a Čechov come all’autore delle pause e dei lunghi silenzi. Quali messe in scena ricorda come meglio riuscite, fra le tante che avrà visto?

F.M.: Sicuramente ricordo Il giardino dei ciliegi di Strehler, del 1974, che è stato uno spettacolo tutto sommato fondamentale. Sebbene, anche in questa versione, molti personaggi assumessero tinte pesanti e inappropriate. Ricordo Valentina Cortese, che non è stata una grande Ljuba, e ha prediletto toni troppo tragici. Tornando a oggi, penso alle regie di Liv Ferracchiati, che ha fatto col suo Gabbiano un interessantissimo esperimento all’Accademia di Arte Drammatica di Roma. O a Leonardo Lidi: nella sua ultima versione di Zio Vanja il personaggio di Astrov, che era solitamente rappresentato come un personaggio tragico, diventa qualcosa di completamente nuovo, divertente e inquietante. E anche il finale, quel famoso «Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo, pazienteremo» di Sonja, che veniva anni fa rappresentato fra lacrime e singhiozzi, era qui reso in modo diverso, più asciutto, coraggioso. Fino alla metà del secolo scorso, tutto veniva rappresentato ancora nel modo di Stanislavskij. Forse abbiamo riscoperto davvero Čechov solo in questo secolo.

I.G.: Questo per quanto riguarda noi, in Europa. E in Russia? Cosa sta succedendo? Forse non sono tempi adatti alle tinte sfumate čechoviane…

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