Quando ricevetti la pagella, alla fine della quinta elementare, nel riquadrino destinato al riassunto delle inclinazioni del diplomando la mia insegnante di matematica espresse le sue ultime volontà, ossessionata com’era dall’idea che fosse un melanoma rampante quell’arrossamento sul collo che poi si sarebbe risolto in un ordinario eritema da scaldino. Così, mentre i miei amici abbandonavano i Digimon per vagheggiare lauti 730, io piangevo per il quadro clinico dell’amata maestra e intanto mi ritrovavo in apparenza sospeso nel vuoto. Mia madre, donna pratica, valutava ipotesi per mettermi a reddito, come l’offerta del nostro vicino di casa di scambiarmi con un set da ping pong, rete con ventose non compresa. Poi, un giorno, la svolta: Hollywood. Cercavo su Virgilio informazioni intorno a questa parola misteriosa, che sentivo associare spesso al mio idolo calcistico, Adriano Leite Ribeiro, e così scoprii la grande industria del cinema americano. Decisi di approfondire, prendendo appunti su un’agendina intitolata “Ciao Hollywood”. Non ne sapevo nulla, perché film ne vedevo pochi, il catechismo mi impegnava più del dovuto, ma di lì in poi un’idea di massima prese a delinearsi. Los Angeles, gli Studios, Francis Ford Coppola, ville con piscina, champagne, chauffeur, coiffeur, concierge, entourage, découpage. Un sogno stupendo, che presto purtroppo si rivelò indeclinabile. Attore? Difetti di pronuncia troppo marcati, vizio di tendere le “e” verso una “a” alla maniera di Carlo Calenda e inspiegabile imbarazzo para-laziale sulle palatali laterali (“ajo”, “fijo”, “Bavajo alla Corte dei Conti”…). Regista? Terrore del ciak, quel suono sordo che ricordava ciabatte Arena negli spogliatoi del calcio e relative vessazioni in doccia. Operatore? Scenografo? Montatore? Impossibile, troppa tecnica. E in questo indugio intanto il tempo passava. Mi iscrissero alle medie, poi a geometri, poi al Grande Oriente d’Italia, e Hollywood in un angolo scoloriva.
Finché, era il 28 maggio 2013 – lo ricordo benissimo perché nel pomeriggio mi rubarono il monopattino –, una mattina lessi un articolo di Filippo Facci su Paolo Sorrentino, dove i film erano definiti “una scusa per piazzarci musica a piacimento”. Bastò quella frase perché tutto andasse a incastro. In un istante capii quale fosse la strada cercata per anni. Comprai un computer e iniziai a fare delle prove. Con un piccolo lettore Mp3 sfogliavo le mie canzoni preferite e ci accostavo immagini, flussi di pensieri. Un lavoro difficile, ero un novizio, senza nozioni in materia di sceneggiatura. Ma intuivo che avrebbe dato dei frutti. E infatti oggi, Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti