Katja Petrowskaja è sdraiata sull’erba nel parco di Friedrichshain, a Berlino, a godersi il tepore e il verde di maggio dopo le settimane del lockdown, quando un freddo improvviso la fa saltare in piedi. Colpa di una piccola nuvola che copre il sole. La fotografa subito col cellulare. Questo scatto senza pretese contiene forse la chiave per capire il modo con cui Petrowskaja sceglie, osserva e commenta fotografie sul «Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung» per la rubrica Bild der Woche. «Guardo questa nuvola» scrive, «e tutto ciò che è pesante in me diventa significativo e leggero, ciò che è solo diventa unico».
Ora molti di quegli articoli, scritti tra il 2015 e il 2021, sono raccolti nel volume Das Foto schaute mich an (Suhrkamp Verlag 2022; l’edizione italiana uscirà per Adelphi l’autunno prossimo, e le traduzioni qui riportate sono mie). L’autrice parla di «incontri col visivo». Spesso le capita di essere raggiunta dalle fotografie, d’imbattersi in loro casualmente: appaiono in libri trovati per strada o sulle bancarelle di un mercatino dell’usato. Altrettanto spesso le restituiscono lo sguardo, come quella del minatore del Donbass cui il libro deve il suo titolo: «La foto mi guardò». Ma che si tratti di quel ritratto o di un documento di Josef Koudelka carico di Storia, dell’istantanea innevata di un reportage di viaggio nell’ex Urss o della strana impressione radioattiva di un fiore nato a Černobyl’, Katja Petrowskaja riesce sempre a vedere l’unicità nella singolarità.
Tra il 2015 e il 2019 Teju Cole, scrittore afroamericano, ma anche fotografo, ha fatto un’operazione analoga sul «New York Times Magazine» nella rubrica On Photography, e alcuni contributi si leggono adesso in L’estraneo e il noto. Entusiasmi, incontri, letture, fotografie (Contrasto 2018). La modalità e il periodo di composizione sono più o meno gli stessi. Capita anche che Cole e Petrowskaja affrontino soggetti simili o addirittura identici. I loro punti d’osservazione sono però diversi.
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