A volte la curiosità per un bel libro può nascere da una brutta recensione. È ciò che mi è successo leggendo Chiara Valerio, su «Robinson», a proposito del notevole Proust, romanzo familiare di Laure Murat (Sellerio, 2025, traduzione di Marina Di Leo e Giulio Sanseverino). A colpirmi, in particolare, è stata una frase in cui Chiara Valerio, servendosi di una comparazione e di una sintassi assai singolari, attribuisce all’autrice un merito altrettanto bislacco: «Il libro di Murat rivela quanto Proust, come il dottor Frankenstein, elabora via via le istruzioni per l’uso delle persone che siamo». Lungo tutto il suo libro, come ho poi potuto constatare, e come l’articolo stesso di Chiara Valerio lasciava intuire tra le righe, Murat accerta l’esatto contrario: Proust ci parla di un io le cui oscillazioni sono irriducibili a qualsiasi “ragion pratica”. 

Ma si sa: ogni scrittore italiano oggi alla moda si sente legittimato – dietro incoraggiamento di operatori editoriali loro, sì, sempre più simili al dottor Frankenstein – a spararle più grosse che può sui più grandi scrittori del passato, di preferenza nella forma, ridotta a parodia, del saggio di taglio personale (sia esso un libro, una prefazione o un articolo), in una deriva narcisistica che, priva di competenza e consapevolezza, vorrebbe travolgere con sé Leopardi o Flaubert, Manzoni o Proust: tutti insieme nell’allegro naufragio della cultura letteraria, senza più distinzione tra capitani di lungo corso e mozzi al primo imbarco. Forse pensano che all’estero si faccia così, e che non si debba essere provinciali. Il saggio di Laure Murat ci mostra che, non appena valicato il Fréjus, le cose stanno, per fortuna, in modo un po’ diverso. 

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