Prosegue la serie di pezzi sull’arte della scrittura pubblicati grazie alla collaborazione con la scuola Belleville, che sabato 21 e domenica 22 settembre organizzerà a Milano il festival Le meraviglie del possibile.
Nella celebre scena d’apertura di Inglourious Basterds, un colonnello delle SS fa irruzione in una fattoria e ne interroga il proprietario utilizzando, prima, il francese, poi, sapendo che il suo interlocutore ha viaggiato e conosce altre lingue, l’inglese. Il passaggio da una lingua all’altra, ingiustificato, serve solo a porre un ironico accento sulla convenzione del doppiaggio: dato che in un film hollywoodiano i personaggi, a prescindere dalla loro nazionalità, devono esprimersi prevalentemente in inglese, viene trovato un artificio poco verosimile (l’anglofonia di un contadino della Lorena dell’epoca) per motivare, se così può dirsi, il dialogo in quella lingua tra un tedesco e un francese.
Con una scelta paradossale la cui stupidità fa sorridere, in Italia questa scena del film di Tarantino è stata parzialmente doppiata. Dopo che il colonnello tedesco ha chiesto in francese al contadino normanno se possono cambiare lingua e passare all’inglese, i due iniziano a parlare, con altra voce, in italiano.
Se dal cinema ci spostiamo alla letteratura, è pratica abituale “doppiare” nei dialoghi i personaggi la cui lingua è diversa da quella usata dal narratore. In un romanzo storico scritto in italiano ma la cui trama si svolge nella Germania nazista, nella Francia rivoluzionaria o nella Roma imperiale, i personaggi si esprimeranno in italiano. In un romanzo o in un memoir di ambientazione contemporanea i cui personaggi appartengano a paesi diversi, facilmente i dialoghi saranno tutti, e del tutto, in italiano. È una convenzione innocua, accettata dai lettori, ma che, appiattendo l’identità linguistica dei personaggi su un idioma standardizzato, incorre nel rischio di un più generale appiattimento letterario, oltre che della visione del mondo veicolata dalla narrazione.

È quanto accade, per esempio, in Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya (2018) di Paolo Cognetti, scrittore peraltro consapevole degli aspetti tecnici inerenti alla scrittura. In questo racconto autobiografico di viaggio ambientato nella sperduta regione nepalese del Dolpo, Cognetti, a un certo punto del suo itinerario, si ferma a dormire insieme ai suoi compagni di avventura nell’abitazione di un “villaggio di polvere”. Dal passaggio che segue ho espunto solo alcuni frammenti narrativi, tutto ciò che fa parte dei dialoghi è invece trascritto:
La famigliola che ci ospitava passò la serata in una stanzetta dietro la tenda, forse una piccola cucina: un uomo, un bambino, una giovane donna che veniva ogni tanto a vedere se avevamo bisogno di qualcosa, parlando un buon inglese. Quando uscirono per andare a dormire altrove mi alzai a sgranchirmi le gambe, osservai i libri su uno scaffale, cedetti alla tentazione di affacciarmi di là: accanto alla stufa che si spegneva, alla pila di sterco secco, alla ciotola della tsampa, due lumini al burro traballavano davanti a una foto del Dalai Lama. Sopra la foto era appesa una bandiera del Tibet. (…)
Di mattina la donna tornò da sola. Andò in cucina e poco dopo il fumo del ginepro ci avvolse. Io in Dolpo non ero mai riuscito a parlare con nessuno, pensai che difficilmente avrei avuto un’altra occasione: così, mentre i miei compagni bevevano il caffè, mi avvicinai alla tenda e bussai sullo stipite.
– Posso?
– Prego, – disse la donna.
Entrai. Era inginocchiata davanti alla stufa e soffiava sul fuoco che stentava a prendere. Mi ricordai di avere letto che molti bambini della regione avevano problemi agli occhi e alla gola per via del fumo.
– Hai bisogno di qualcosa, – mi chiese.
– Solo parlare un po’, se vuoi.
– Ma certo.
(…)
– Come mai parli così bene l’inglese?
– Faccio la maestra, l’ho imparato a Katmandu.
– Sei cresciuta lì?
– Ci sono andata a scuola. Ancora adesso ci torno tutti gli inverni. Qui è troppo freddo, c’è troppa neve per restare. Ma questo è il mio paese, volevo insegnare ai bambini di qui.
– È lontana Katmandu?
Ci pensò, fece un conto con le dita. Disse: – Quattro giorni di cammino per Jomsom. Poi altri due o tre con l’autobus o con qualche passaggio. Una settimana.
– E quando parti?
– Tra poco. Entro dicembre vanno tutti via.
(…) Indicai la foto e i lumini, e le chiesi se poteva spiegarmi il loro significato.
– Noi siamo tibetani, – disse. – Per lingua, cultura, religione. Ma siamo cittadini nepalesi e molto grati al Nepal perché ci lascia vivere a modo nostro –. In questa risposta ricercata mi sembrò di sentire i discorsi che faceva ai bambini.
Malgrado l’incongruenza “tarantiniana” di uno scambio che si autoenuncia in una lingua («Come mai parli così bene l’inglese?») ma è scritto in un’altra, Cognetti riesce, tramite un impiego sobrio dello stile, a creare una certa parvenza di naturalezza dialogica. Ma l’effetto involontario di questo uso del doppiaggio è un’accentuazione del paternalismo già insito nella scena (la maestra conta sulle dita come i bambini, e come loro risponde scolasticamente a una domanda del narratore, che non si capisce bene perché trovi “ricercata” la sua risposta). Se nel suo testo Cognetti avesse utilizzato un po’ d’inglese, magari inframezzato con frasi al discorso indiretto, questo effetto paternalistico sarebbe stato in parte smussato: quando ci si esprime in una lingua che non è la propria si è un po’ tutti ridotti a una condizione puerile, il narratore e il personaggio avrebbero condiviso questa retrocessione all’infanzia. Così, abbiamo invece il narratore
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