Il conte Ugolino divorò o no i suoi figli? O meglio, Dante volle suggerirci che lo fece oppure no? Jorge Luis Borges dedicò alla questione un breve scritto intitolato Il falso problema di Ugolino, poi raccolto nel volume Nove saggi danteschi. L’episodio della Commedia di cui stiamo parlando è notissimo: nel trentatreesimo canto dell’Inferno Dante sta attraversando il nono girone, dove sono puniti i traditori, e si imbatte in Ugolino, conficcato nel ghiaccio ed eternamente intento a rodere coi denti il cranio del suo grande nemico Ruggero degli Ubaldini. Il conte racconta la sua triste storia: rinchiuso in una cella da Ruggero insieme ai quattro figli, li vede spirare uno dopo l’altro; la rievocazione si chiude con un verso celebre: «Poscia, più che ’l dolor poté ’l digiuno». 

I primi commentatori non trovarono una reale ambiguità in questo verso: vi leggevano semplicemente che infine non fu il dolore terribile per la morte dei figli a uccidere Ugolino, ma la fame. Successivamente si è aggiunta una seconda interpretazione, entrata maggiormente nell’immaginario collettivo per via della sua potenza tragica e macabra: il digiuno fu più forte della sofferenza per la perdita dei figli, al punto da indurlo a cibarsi dei loro corpi. 

Dunque, cosa intendeva dire Dante? Nei secoli interpreti e commentatori della Commedia si sono divisi. Ma secondo Borges l’ambiguità del verso, l’impossibilità di stabilire definitivamente cosa volesse suggerire Dante, è appunto un “falso problema”. Perché nello spazio creato dalla letteratura entrambe le interpretazioni possono essere contemporaneamente vere:

Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a più alternative opta per una di esse ed elimina e perde le altre; non è così nell’ambiguo tempo dell’arte che assomiglia a quello della speranza o a quello dell’oblio. Amleto, in quel particolare tempo, è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie.

Con queste parole Borges non solo e non tanto prova a spiegare un passo di Dante, ma illustra un certo modo in cui la letteratura funziona. Un’idea in cui possiamo trovare una (probabilmente inconsapevole) somiglianza con nientemeno che un postulato della meccanica quantistica. Stiamo parlando del principio di sovrapposizione, reso popolare dal famoso esperimento mentale del “gatto di Schrödinger”: in sintesi, il fisico austriaco aveva immaginato un gatto chiuso in una scatola e collegato a un meccanismo che, in base al verificarsi o meno di certi eventi spontanei a livello subatomico, ha una certa probabilità di ucciderlo. Ora, ci dice Schrödinger, finché non si apre la scatola, cioè finché non si osserva il sistema composto dal gatto e dal meccanismo potenzialmente assassino, il tale sistema si troverebbe in una sovrapposizione di stati. Detto altrimenti il gatto sarebbe contemporaneamente vivo e morto. 

Se Borges non parla apertamente di sovrapposizione quantistica in riferimento alla letteratura, lo fa invece Enrico Terrinoni in “La letteratura come materia oscura

La scatola dove è rinchiuso lo sventurato felino è equivalente alla cella in cui è tenuto l’Ugolino raccontato da Dante. All’interno della scatola il gatto è vivo e morto, così come nel mistero di quello che accadde nei suoi ultimi giorni il conte è e non è cannibale. La differenza è che una volta aperta la scatola potremmo scoprire se l’animale è sopravvissuto o meno, l’ambiguità della sorte di Ugolino invece rimarrà per sempre tale ed è un bene che sia così.

Se Borges non parla apertamente di “sovrapposizione quantistica” in riferimento alla letteratura, lo fa invece Enrico Terrinoni in La letteratura come materia oscura, interessantissimo saggio uscito di recente per Treccani. Con questo libro Terrinoni – che è professore di letteratura inglese, scrittore e traduttore – propone un approccio all’interpretazione critica dei testi letterari che si fonda su un parallelismo metaforico con alcuni assunti teorici della fisica contemporanea. Di «interpretazione simil quantistica» parla appunto l’autore.

Giuseppe Diotti, “Conte Ugolino della Gherardesca con i figli nella torre della fame”, 1800-49, Musei Civici di Arte e Storia, Brescia

Si tratta evidentemente di una maniera per rendere porosi i confini (spesso biasimati, più raramente messi davvero in discussione) che separano cultura scientifica e cultura umanistica. Ma, attenzione, non si tratta di applicare alla lettura e interpretazione dei testi metodi che pretendono di avere una loro “scientificità” (al contrario: gli approcci critici di studio “scientifico” della letteratura – perlomeno quando assunti come metodo esclusivo o prevalente – sono un bersaglio polemico del saggio) e neppure di privilegiare una letteratura che affronta temi scientifici o si assuma il compito di “raccontare la scienza”. Si tratta di stabilire una connessione tra scienza e letteratura più sotterranea e insieme più proficua: applicare una «naturale metempsicosi dei saperi», cioè lasciare che le idee sull’universo che emergono dalla fisica moderna circolino, fecondino le menti dei letterati e dei critici, permettendo anche che così facendo – come capita sempre quando qualcosa passa da un contesto a un altro, da una testa a un’altra – quelle stesse idee cambino, si trasformino, vengano anche fraintese talvolta, ma comunque conservino il loro potere di stimolare una visione più profonda delle cose.    

Prendiamo, ad esempio, il concetto di “relazionalità”, fondamentale nella teoria dei quanti per cui la realtà è sostanzialmente una rete di relazioni (per citare Carlo Rovelli da Helgoland, secondo la teoria dei quanti ogni cosa è «solamente il modo in cui agisce su qualcos’altro» e «le caratteristiche di un oggetto sono il modo in cui esso agisce su altri oggetti»). Una visione del mondo che polverizza l’apparente solidità delle cose così come le percepiamo, sostituendola con una intricatissima ragnatela di relazioni reciproche, senza le quali nulla esisterebbe.

Proviamo ad applicare ai testi letterati la medesima visione. Pensiamo al testo come qualcosa che esiste solo attraverso le proprie relazioni, che è le proprie relazioni. In questo modo, spiega Terrinoni, «potremmo affermare che un libro, un’epica, una poesia, esistano soltanto nel modo in cui influenzano chi li percepisce e ne fruisce». Quindi «un testo che non interagisce non esiste, perché anche le sue presunte qualità intrinseche restano silenziate. Quando poi queste si fanno sentire, non sono più loro ma l’eco che hanno prodotto nel lettore». 

La materia oscura è detta tale perché non direttamente osservabile: la possiamo “conoscere” e misurare solo indirettamente attraverso l’influenza che esercita sull’universo “visibile”. La stessa cosa è per il letterario: non possiamo conoscerlo in sé, possiamo solo conoscere le possibili letture

Il testo perde così solidità: diventa qualcosa di fluttuante e incerto che può stabilizzarsi solo in letture e interpretazioni circostanziali e mai definitive. La sua vita non avviene nelle lettere fissate su carta una volta per tutte, ma in una dimensione ambigua e inafferrabile che per Terrinoni è precisamente “il letterario”, definito come «lo spazio di concatenazione tra creazione e interpretazioni». Quello che si apre tra il momento (unico e irrecuperabile) della scrittura e quello (continuamente rinnovabile) della lettura-interpretazione è il campo in cui ci si gioca tutto e dove i risultati non sono mai prevedibili. Per questo è come la materia oscura: 

Il letterario è infatti, in letteratura, quello che la materia oscura è per il cosmo: qualcosa che ipotizziamo esista, seppure non sappiamo ancora misurarla in maniera diretta. È quel che emana la nube di significati potenziali proiettati dai testi al di fuori di sé, in maniera prismatica. Questa tempesta di significazione all’interno della quale soltanto alcuni elementi, e per mezzo di dinamiche spesso imprevedibili, sono capaci di materializzarsi nell’interpretazione, è lei che anima la letteratura a partire dalle sue profondità più oscure. […]
In esso si fondono insieme l’ispirazione e gli obbiettivi iniziali dell’artista, ma anche le dinamiche per cui un dato oggettivo diviene, in modi vari e spesso contradditori, patrimonio di una più o meno vasta platea di fruitori. È situato perennemente ai confini della conoscibilità: è un’ombra che determina nella sua infinitudine, lo statuto permanente della letteratura come arte in fieri.

La materia oscura è detta tale perché non direttamente osservabile: la possiamo “conoscere” e misurare solo indirettamente attraverso l’influenza che esercita sull’universo “visibile”. La stessa cosa è per il letterario: non possiamo conoscerlo in sé, possiamo solo conoscere le possibili letture. E siccome ogni lettura è appunto solo “possibile”, è soltanto il realizzarsi di una delle possibilità di un testo, non esistono interpretazioni oggettivamente vere o false, esistono solamente interpretazioni più o meno probabili. Terrinoni parla precisamente di «interpretazione probabilistica». Si tratta di riconoscere che intorno al testo vive una «nube delle interpretazioni probabili», che il critico è chiamato a esplorare, non a diradare, secondo le «dinamiche ondulatorie dell’interpretazione».

Per continuare a usare termini trattati dalla fisica si può parlare di un “principio di indeterminazione” della letteratura, cioè «l’accettazione dell’incertezza insita in ogni prodotto artistico». Il che, si badi, non significa arrendersi a una sorta di “nichilismo” per cui se non è possibile comprendere totalmente un testo bisognerebbe rinunciare a interpretarlo. Al contrario, davanti al brulicare delle letture possibili ciascuno dovrebbe essere incentivato a tracciare una propria strada, ad attivare particolari potenzialità del testo, a scommettere su una certa interpretazione, a generare nuove “onde interpretazionali”, che continueranno a vibrare in futuro.  

Forse possiamo trovare buoni esempi di questo approccio in quel tipo speciale e concreto di interpretazioni dei testi che sono le traduzioni. Un traduttore sa di non poter mai pervenire a una traduzione perfetta che renda in maniera esatta e incontestabile un testo letterario in un’altra lingua (per citare uno dei frequenti giochi di parole presenti nel libro di Terrinoni: la resa di un testo in traduzione è sempre anche una “resa”, nel senso di un arrendersi davanti alla sua non totale traducibilità). Ogni traduzione riuscirà a conservare qualcosa della pagina originale, ma dovrà rinunciare a qualcos’altro. Pertanto, un testo non avrà mai una “traduzione definitiva”, ma solo tante «traduzioni possibili e probabilistiche», in un «percorso ad infinitum» in cui ciò che non è stato assorbito in una traduzione-interpretazione potrà forse esserlo nella prossima.