Era da anni che riuscivo a non pensarlo più, a ignorare gli articoli sulle sue mostre.
Poi avevo sentito il suo nome alla televisione. E non ce l’avevo fatta: avevo spento, allontanato il telecomando.
Sto a Milano per causa sua.
Quando sono arrivata qui avevo vent’anni, capelli lunghissimi, lisci e neri, la pelle ambrata di tutte le ragazze del Sud cresciute all’aria aperta, in spiaggia, che hanno accumulato luce fin dall’infanzia. La prima volta che mi vide disse che gli ricordavo una delle ragazze tahitiane che aveva dipinto Gauguin.
Ne fui lusingata, ingenuamente.
Quel giorno ero vestita di bianco, faceva caldo per essere fine estate: ricordo che pensai alle macchie di sudore incollate sulla stoffa leggera, che strinsi le braccia lungo il corpo con un movimento innaturale per evitare che si notassero gli aloni scuri intorno alle ascelle. Percepivo che si stavano formando come acquerelli su carta troppo leggera.
Lui intanto sembrava divertito dalla mia soggezione.
Esaminò i miei disegni, sfogliandoli uno a uno e disponendoli sul grande tavolo tra noi fino a coprirlo tutto.
– Hai un tratto interessante. Forse ancora acerbo, ma possiamo lavorarci.
Da quel momento, durante le mie serate e notti di lavoro finalmente ispirato, consumavo blocchi e matite con voracità, come le montagne di cracker e mozzarella di cui mi nutrivo per non sprecare tempo; vedere realizzate le opere cui collaboravo mi riempiva di un orgoglio violento, che cercavo di nascondere dietro una parvenza di rigore professionale.
Di tanto in tanto se ne usciva con un commento distratto su come mi stavano i capelli, che portavo ancora lunghi, raccolti in una treccia; spesso notava il colore del rossetto: gli piacevano i lucidalabbra chiari e appiccicosi. Cominciai ad assecondare i suoi desideri senza bisogno che li rendesse espliciti: bastava il modo in cui sorrideva, l’inflessione della voce, perché scegliessi di non portare più quel vestito, di abbassare lo sguardo, di mettere per giorni lo stesso paio di scarpe. Mi teneva a bada.
Sapevo che frequentava donne diverse: nel suo studio trovavo tracce del loro passaggio: bicchieri con un fondo di vino, orecchini incastrati nell’angolo del divano, polvere di fard nel lavandino del bagno. Ma non riuscivo a esserne gelosa perché mi rendevo conto che le considerava poco più che figure sfocate con cui riempire taccuini di bozze nei ritagli di tempo.
E poi un giorno ebbe l’idea della scuola d’arte.
Lavoravo con lui da un anno con uno stipendio modesto, ma nel frattempo alcuni miei lavori erano stati esposti in una galleria d’arte in centro, le sue raccomandazioni mi avevano regalato una certa visibilità e il mio nome circolava negli ambienti dei collezionisti milanesi come quello della “allieva di”.
La sua idea era quella di un atelier di quartiere, ma in versione doposcuola da ricchi: piccoli gruppi di bambini con grandi grembiuli colorati, le manine sporche di pittura, tele ovunque, una quota di iscrizione altissima.
Cominciammo il primo anno con una ventina di ragazzini dai sei ai tredici anni, incontri pomeridiani e nel fine settimana per saggiare il loro istinto artistico attraverso laboratori di disegno con i gessetti, i pastelli a cera, gli acquerelli, il colore a olio.
Io organizzavo l’agenda e gestivo i rapporti con i genitori; a lui i bambini sottoponevano le loro opere senza alcuna soggezione, per poi ascoltare attenti le sue correzioni e ricominciare daccapo su un altro foglio, cartoncino o tela.
Nel frattempo, continuavo la mia personale ricerca, il mio esercizio astratto, fatto di cupe linee geometriche: sovrapponevo strati di sfumature sempre più intense, sempre più scure, fino a rendere il mio lavoro una specie di trasposizione pittorica della mia ansia quotidiana: volevo essere notata, volevo essere capita, soprattutto essere amata; e non riuscendoci, mi nascondevo mettendo in mostra tutto il buio che sentivo dentro.

Quello che provavo per lui era un misto di ammirazione e frustrazione.
A volte sembrava considerarmi attraente, e quasi trattenere uno slancio fisico nei miei confronti per, mi dicevo, non compromettere il nostro sodalizio professionale, e questa sua ritrosia mi consolava, come fosse una rinuncia alla quale eravamo arrivati insieme. Non cercavo relazioni, per paura che trapelassero e che questo lo allontanasse da me.
Ero sola. Forse per questo non fui capace di cogliere nessuno dei tanti segnali che avrebbero dovuto indicarmi il pericolo.
Il primo anno di scuola d’arte fu un grande successo e si concluse con una piccola mostra dei lavori migliori dei nostri giovani allievi: lui era orgoglioso e fiero del suo progetto e grato a me per il supporto, per la mia competenza e il mio occhio attento, quasi materno, nei confronti dei bambini.
E d’altra parte era impossibile non esserne inteneriti: a scuola indossavano tutti grembiuli rossi, blu, bianchi e gialli, le femmine tenevano i capelli raccolti con elastici di spugna dello stesso colore e tutti ridevano guardandosi le mani macchiate, facendosi sbaffi sulla fronte e sulle guance, nascondendosi dietro i cavalletti, le faccine immerse nelle tele.
Lui non parlava mai di un singolo allievo: erano una squadra. Incoraggiava il lavoro di gruppo, spingeva a collaborare invitando ognuno ad aggiungere piccoli dettagli ai lavori degli altri.
Dopo le vacanze, al rientro dal mio mese in famiglia, trovai una pioggia di nuove iscrizioni: la voce si era sparsa, l’estate e gli aperitivi presi all’aperto avevano alimentato un proficuo chiacchiericcio sulla nostra scuola e alcune mamme si erano convinte che i loro figli avevano talento da vendere o, almeno, da mettere in mostra.
Ricominciò tutto: il viavai dei bambini, gli esercizi, lui che nelle classi commentava il lavoro dei piccoli e che poi li osservava lavorare dalle vetrate, con le mani dietro la schiena, assorto.
Intanto aveva ripreso la sua attività, immergendosi in un nuovo progetto legato ai corpi tridimensionali che cercava di rendere con inserti di metallo, corda e pietra sulle tele giganti che dipingeva.
Io, ubbidiente, continuavo a dedicarmi alle questioni burocratiche, all’organizzazione pratica delle lezioni, alle iscrizioni e ai pagamenti mensili delle quote. Era un nuovo equilibrio che nascondeva qualcosa di storto, inquieto, ma non me ne accorsi subito.
Fu l’inverno.
Il mio ufficio era a metà del corridoio, subito dopo le aule. Ero abituata a lasciare la porta aperta, per rendermi conto del momento in cui la lezione terminava e riconsegnare i bambini ai genitori scambiando con loro qualche parola.
Quel pomeriggio la mia attenzione fu attratta dal rumore che provocavano un paio di scarpine con la suola di gomma sul linoleum blu che ricopriva tutti i pavimenti della scuola. Era un sibilo trattenuto.
Mi sporsi scivolando sulle ruote della sedia da ufficio: lui teneva una bimba per mano, la tirava appena facendo passi lunghi con le sue gambe muscolose mentre lei si lasciava trascinare alternando brevi passetti vivaci. C’era qualcosa di strano, ma ne ero incuriosita più che allarmata.
Riconobbi subito la bambina: era la figlia di un artista che conosceva bene, al quale lo legava una amicizia capace di slanci, tensioni e malignità.
La bambina portava i capelli sempre raccolti in due codini svolazzanti ai lati della testa, gli elastici bianchi come il grembiulino erano una macchiolina luminosa nella massa folta di riccioli neri. Era attenta e piena di iniziativa, ma a differenza dei compagni chiedeva sempre di poter portare a casa i suoi lavori difendendoli con una specie di allegra prepotenza dalle impronte degli altri. A me piaceva. Anche a lui.
Il suo ufficio era accanto al mio, con una sottile parete a separarli: potevo sentire il fruscio dei fogli che smuoveva cercando tra gli appunti. Ma quel pomeriggio lui e la bambina non entrarono in ufficio: li sentii scalpicciare oltre, verso lo studio grande, l’ultima porta in fondo, quella che restava sempre chiusa per evitare che qualcuno potesse interrompere il processo creativo in atto.
Accadde altre due volte quella settimana: a metà lezione sentivo i passetti di lei, vedevo la schiena grande di lui, una manina sparire tra le sue dita callose. Entravano nello studio, uscivano una ventina di minuti dopo. Cercai di intercettare lo sguardo della bambina, i suoi occhi scuri con le ciglia lunghe non tradivano nessuna emozione, i codini sempre alti sulla testa.
Ma il grembiulino. Quello fu il dettaglio: era stropicciato, come se fosse stato arrotolato per un certo tempo, tenuto stretto dalle manine. Sollevato.
Dopo la terza volta provai ad accennare qualcosa: gli chiesi se con i bambini c’erano stati problemi, se era dovuto intervenire per sedare il capriccio di una di loro. Mi guardò accigliato, distratto, come se avessi interrotto dei pensieri importanti con una stupidaggine.
– Ma che stai dicendo?
– No, niente. Scusa.

La settimana dopo fermai la bambina. Non sapevo nemmeno che cosa stessi cercando di capire o di sapere, ma fu lei a bisbigliarmi una cosa all’orecchio, dopo avermi fatto cenno di abbassarmi alla sua altezza:
– Non sei gelosa di me, vero? Anche se adesso faccio io l’aiutante del maestro. Ma è solo perché dice che io ho il cuore bianco e l’arte sulla pelle. La deve cercare, però. Perché è tutta nascosta.
Le ultime parole furono come respirate. O fui io a sentirle così.
Quella notte non riuscii a dormire, nemmeno quella successiva, né le altre cento. Continuavo a pensare a ogni gesto che gli avevo visto fare con i bambini, quando li aiutava a tenere il pennello nella giusta posizione tra le dita, quando poggiava loro una mano sulla schiena per incoraggiarli, quando si avvicinava per aggiungere il suo tocco speciale a una tela e li sfiorava in modo del tutto naturale. Casuale, avrei potuto giurarci. O no?
Una sera molto tardi entrai nel suo studio senza bussare: lo trovai davanti al quadro che stava completando, un nudo ricoperto di sottili sfoglie dorate, ricci scuri che solleticavano spalle minute, ossa strette e rotondità morbide, infantili. Ne fui spaventata, quasi inorridita.
A terra, una bottiglia di whisky.
Non beveva mai e non si drogava, sosteneva che la sua arte non avesse bisogno di sofisticazioni o di incentivi. Quando lo guardai mi resi conto che il whisky gli aveva inquinato gli occhi, li aveva resi liquidi ma opachi, come se avesse lasciato un sedimento polveroso sul fondo dell’iride. Mi accarezzò la guancia con un gesto intimo che non aveva mai avuto, mi baciò e sospirò qualcosa alle mie orecchie, fino a confondermi del tutto.
Forse dopo disse anche che mi amava.
Io lasciai la scuola la mattina successiva e smisi di dipingere, immediatamente. Non riuscivo a tenere il pennello senza che la mia mano tremasse, mi sentivo colpevole per il mio silenzio, per aver amato un uomo meschino, per continuare ad amarlo tanto da tacere e scappare, fregandomene di tutto.
Trovai un nuovo lavoro, ebbi una relazione con un collega che passava i fine settimana scommettendo sui risultati sportivi, poi una lunga convivenza con un ragazzo molto più giovane di me, uno che aveva grandi ambizioni ma scarso senso del dovere e si lasciava lusingare da ogni promessa di guadagno facile. Con lui fu difficile troncare perché quell’abisso fatto di fallimenti continui, di pianti disperati, di richieste di perdono e poi di nuovi peccati mi facevano l’effetto di una catarsi a cadenza settimanale: era lui che potevo salvare, prestandogli soldi, accarezzandogli la testa come se fosse un bambino ingenuo e non un adulto irresponsabile, garantendogli di restare al suo fianco a qualsiasi costo. Così ci pensò lui, a lasciarmi, con un discorso inframmezzato di scuse e accuse, mentre in strada una donna ancora più grande di me lo aspettava su una station wagon nera.
La mia restava una colpa non espiata: mi sentivo come cenere rimasta dopo un incendio che non avevo appiccato ma che avrei dovuto spegnere e che quindi, alla fine, mi aveva consumata. I suoi successi erano colpi bassi. Il mondo lo ammirava ma solo io conoscevo il codice che traduceva tutta quella luce in un inferno.
E io non volevo tradurre niente. Volevo dimenticare.
Finché non la rividi.
Aveva venticinque anni ma sempre lo stesso viso tondo, le labbra sottili, gli occhi giganti e i capelli ricci raccolti in alto: per un istante sentii ancora le sue scarpe scricchiolare sul pavimento, nel silenzio della scuola. Adesso era oltre lo schermo televisivo, sotto le luci artificiali, seduta con grazia su un divanetto di design, durante l’approfondimento di una trasmissione pseudo-culturale.
– Perché scrivere la sua storia proprio ora, che suo padre è morto? – le stava chiedendo l’intervistatrice, ripresa solo di profilo.
– Mio padre è stato il mio migliore amico e il mio peggiore nemico, un uomo ingombrante con cui crescere. Un uomo che voleva sapere tutto della mia vita, e al quale io, di conseguenza, ho nascosto molte cose.
Parlava con una voce che faticai a sovrapporre alla bimbetta che ricordavo.
Ma lei era lì, se l’era cavata. Qualcosa dentro di me si sciolse, come un peso di piombo fuso a freddo in acido nitrico: era una donna adulta, bella, che parlava di suo padre con un misto di orgoglio e di insofferenza, della sua infanzia come di un periodo spensierato e complicato: era una normale donna adulta che provava a guardarsi indietro, tra ricordi belli e altri brutti.
Mi sentii sollevata: era tutto a posto.
Per questo le parole che ascoltai dopo mi colpirono come schiaffi.
– … lei crede che il suo libro sarà definito “scandaloso”?
– Credo che farà tremare. E cadere da certi piedistalli. Come è finalmente ora che accada.
– Sta parlando di…?
La vendetta aveva occhi gentili e dita lunghe che si torcevano sui braccioli del divanetto.
Non lo avevo più sentito. Ma il suo numero di telefono non era cambiato.
Rispose al primo squillo. Non mi aspettavo che riconoscesse la mia voce: vi erano passati sopra vent’anni, lasciandovi parecchie ombre; la sua aveva invece mantenuto
una luce indiavolata che serpeggiava tra le frasi maliziose, mentre parlava con insofferenza e divertimento insieme, quasi a provocarmi.
– E quindi? Cosa vuoi?
– Ma ha scritto un libro, non hai sentito? Parla anche di te…
– E allora?
– Era una bambina.
– Cosa vorresti dire?
– C’era il suo corpo nudo su quella tela…
– Il “Cuore bianco”? Ho vinto l’Hugo Boss Prize grazie a quel quadro.
Girava intorno ai miei timori ridendone con quell’ironia ruvida che, ricordavo bene, riservava alle persone che considerava sciocche o, ancora peggio, noiose.
Poi cambiò tono.
– E tu cosa fai adesso?
Io avrei fatto qualsiasi cosa, per credere ancora una volta di sentirlo dire che mi amava.