Usata come supporto fondativo e indagatore della pittura, la fotografia si è recentemente rivelata decisiva nel testimoniare la monumentale ricerca che Cy Twombly, uno dei personaggi più influenti dell’arte del secondo Novecento, condusse all’età di venticinque anni durante il suo viaggio in Marocco dopo aver vinto una borsa di studio: di questo passaggio cruciale ci rende partecipi la pubblicazione avvenuta sotto l’ala di Humboldt Books di Marocco 1952/1953, a sua volta testimonianza della mostra dedicata al pittore presso il Museo Yves Saint-Laurent di Marrakech, curata da Nicola Del Roscio.

Prendere coscienza di un periodo produttivo di un pittore attraverso la sua stessa documentazione fotografica può aprire la strada a numerosi spunti: da un lato, permette di vedere in modo diretto dove l’occhio del giovane genio si fosse posato maggiormente, cosa avesse assorbito attraverso la lente della Rolleiflex per poi riproporre i nuovi temi acquisiti nei suoi studi successivi; dall’altro, mette a fuoco la fotografia come mezzo fondamentale per il proprio riconoscimento visivo nel mondo. Immergendosi nelle appena ventisei fotografie scattate da Twombly – poco più di due rullini, se si pensa che una pellicola per il formato 6×6 permette dodici scatti – in varie località marocchine, dalle più battute come Tangeri alle meno note come Volubilis, si prende atto di come il suo estro fosse già stato anticipato dalle creazioni precedenti di un popolo fino ad allora, per Twombly, sconosciuto. L’informalità geometrica incisa su pietra, che il pittore registra con vivido interesse, confluisce in modo naturale in tutta la sua produzione successiva, come se fosse riuscito a decifrare con immediata lucidità un codice formale preesistente. 

La fotografia ha il potere di tracciare il momento in cui ci si scopre già capiti, già visti e già esistiti in culture a cui pure arriviamo per caso. Twombly trova negli scavi archeologici e nei paesaggi berberi gli stessi segni che cercava, che covava ancora immaturi dentro di sé. Contemporaneamente, la fotografia di Twombly assolve la stessa funzione a cui la piega il botanico, quando prende e campiona gli esemplari da riprodurre nel disegno. La correlazione tra fotografia e disegno – soprattutto se letta in quest’ordine – diventa particolarmente significativa se si pensa ad altri autori che hanno vissuto lo stesso passaggio. Si pensi a Degas, all’uso della fotografia per studiare le pose delle sue ballerine; a Cesare Leonardi, che per la sua Architettura degli Alberi con la fotografia compone il substrato naturale per i suoi disegni enciclopedici di ogni albero europeo; ad Alfons Mucha, che come Degas partiva dal dato reale (fotografico) per poterlo superare nel decorativismo Liberty.

Il libro propone alcuni risultati della fase successiva ai tre mesi di viaggio in Marocco di Twombly – in cui lo accompagnò l’amico Rauschenberg, immortalato in alcuni scatti – su cui si sofferma nella postfazione Natalie Dupêcher, che solleva l’importante tratto distintivo del metodo adottato da Twombly per evocare sulla tela il retaggio segnico scoperto in Marocco: «[…] i dipinti marocchini attivano una serie di metafore legate all’archeologia e allo scavo». Twombly porta sulla tela quelle stesse operazioni tecniche che dell’archeologia fanno scoperta e graffiature, strati e rivelazioni: coprendo la tela di bianco, Twombly scava e graffia allo stesso modo, rivelando l’esistenza stratificata di quei segni incisi sulla pietra e immortalati durante il viaggio. L’aspetto cruciale del lavoro marocchino di Twombly, e della pubblicazione che ne traccia il compimento, è proprio in questa stratificazione. 

La terza sezione delle immagini ci conduce in un interno domestico visto soltanto attraverso il dettaglio di una tovaglia e una sedia in legno. È evidente l’attenzione di Cy Twombly all’intersezione di linee geometriche e forme differenti (tema caro alla fotografia di quegli anni). Come a ribadire la trasversalità dello sguardo del pittore: le forme degli alberi, la lingua ebraica incisa nei monoliti, il profilo di Rauschenberg, le pieghe di una tovaglia sono la sostanza del suo vedere, del suo agire dietro a pastelli e vernici.