Avrebbe compiuto settantanove anni, il 20 gennaio ultimo scorso, David Lynch, il quale amava ricordare di essere nato lo stesso giorno di Federico Fellini – entrambi sotto il segno astrale del Capricorno. Ha fallito l’appuntamento con il genetliaco, Lynch, a causa di un enfisema polmonare, conseguenza del vizio del fumo che coltivava da tempo immemore. Una debolezza umana che in qualche modo temperava e mitigava l’allure così quieta e controllata del personaggio, quantomeno nel pubblico manifestarsi.
L’eccesso nella misura. Lynch – prendo una testimonianza possibile tra mille, da Eraserhead Stories il documentario da lui stesso approntato e agito nel 2001, in cui rimemorava dettagli e aneddoti del suo primo film – pareva un’incarnazione dell’antica precettistica oratoria: invenzione, disposizione, elocuzione, memoria e pronunzia/azione: non una frase o una parola fuori posto, nel suo studiato eloquio, mai un gesto di troppo o scomposto, qualunque cosa narrasse, foss’anche la più incredibile. Eppure, alcune “spine irritative” in tanto posate performance si notavano: a cominciare appunto dalla sigaretta che si portava alla bocca in modo automatico, centellinando il fumo quasi a trarne le idee che andava esprimendo. E poi la voce, che era un poco “vocetta” (un tratto in comune con Fellini) e gli occhi, il raggio visivo che come spesso accade in individui del genere possedeva la strana fissità di chi travalica l’interlocutore e scavalca il contingente.
C’è un passaggio nel documentario in questione in cui Lynch narra del cadavere di un gatto, presente sul set di Eraserhead: la bestiola era avvolta da residui bituminosi e appariva sventrata, con esposizione sensibile delle interiora. Nelle parole del regista che descrive con ricchezza, ammirata, di dettagli tale spettacolo, egli opera una di quelle associazioni totalmente imprevedibili e sbalestranti che gli erano proprie, evocando nelle iridescenze dei visceri dell’animale il riflesso di certi colori del film di Federico Fellini, Roma. In altre riprese (risalenti al 1977), Lynch, in piedi accanto alla macchia nerastra al suolo lasciata dai liquami del gatto cinque anni prima, spiega a chi lo sta intervistando che l’animale morto lo aveva procurato lui, ottenutane la carcassa da un veterinario, allorché aveva iniziato a girare Eraserhead – che avrebbe poi richiesto un lustro abbondante per giungere finalmente a proda. Pare di capire che l’idea, poi abbandonata, fosse quella di realizzare una lunga scena sui resti in disfacimento del gatto, in quale rapporto concreto o simbolico con il resto della storia, Lynch non lo dice, in obbedienza al ferreo principio che nulla di quanto egli faceva, poteva e doveva venire “spiegato”, se non ricorrendo al paradosso o al calembour. Ma ciò è assai meno interessante del persistere a distanza di anni, di tale immagine, di tale impronta fisica, materica, lì sul terreno e allo stesso tempo nella mente del regista.
Questo non è che un piccolo aneddoto che tuttavia instrada a cercare di comprendere come non esistesse aspetto della realtà, fosse anche il più vile, il più apparentemente insignificante o persino repellente, che agli occhi di Lynch non possedesse un sorprendente, riposto e prezioso valore pontificale: per lui che si potesse trascorrere dalle budella di un gatto alla Roma felliniana era un Snaporaz è una rivista indipendente che retribuisce i suoi collaboratori. Per esistere ha bisogno del tuo contributo. Accedi per visualizzare l'articolo o sottoscrivi un piano Snaporaz.Questo contenuto è visibile ai soli iscritti