S’era quasi a Natale, il lerciume del mondo si esacerbava nell’acquisto compulsivo dei regali. Noi commercianti ci sguazzavamo, a dicembre molti di noi facevano più della metà del fatturato di tutto l’anno. Era un tirare a campare, sorridevamo alla clientela anche se avremmo voluto sgozzarla. I clienti del resto avrebbero voluto sgozzare noi. In un paese senza ricchi il commercio diventa una sorta di mezzogiorno di fuoco. L’uomo entrò affannosamente con il suo borsone. Ne entravano di continuo, essendo il mio esercizio una libreria antiquaria, di quelle che valutano l’acquisto di singoli volumi e perfino di intere librerie. Oggigiorno, visto che la letteratura è finita, restano questi pallidi fuochi di nostalgia in cui l’unico smercio possibile sta proprio nel modernariato letterario. Collezionare ha più senso di leggere. Per la stessa ragione, non acquistavo quasi mai pubblicazioni del XXI secolo, andando a ritroso nel tempo, con una inclinazione particolare nei confronti del novecento italiano. L’uomo adesso era dritto impalato di fronte a me, sembrava che volesse scuotersi di dosso il freddo come se fosse qualcosa di palpabile. Entrando, una folata di vento aveva introdotto a tradimento anche un paio di foglie autunnali, la vera neve di Roma.
– In cosa posso esserle utile, – domandai, ammiccando al suo borsone, per facilitargli il compito: in chi vende i propri libri può nascere l’idea vergognosa – un effetto psicologico nefasto per noi professionisti del settore – di considerarsi dei piccoli accattoni.
L’uomo, dopo un breve indugio, poggiò il borsone a terra e aprì la cerniera. – Potrebbe valutare questi?
Annuii subito, aspettandomi proprio quel tipo di richiesta. Si trattava di un bel malloppo di classici italiani del novecento, di quelli che piacciono a me e alla mia clientela abituale. Li disposi sul banco a uno a uno, proponendo all’uomo una cifra inferiore al valore reale. L’uomo parve sorpreso che la sua collezione valesse così poco e restò meditabondo. Capii che c’era bisogno di un po’ di teatro.
Agguantai La strada per Roma di Paolo Volponi e ne lessi stentoreo l’incipit. “L’uva esposta nella vetrina del negozietto della Pennabianca, il più povero di Urbino, era già appassita e da qualche giorno abbandonata anche dalle vespe. Ormai per la strada di Santa Lucia veniva una tramontana bagnata, con un’ala salina sopra i tetti e i cornicioni, che rinfrescava la luce vecchia e ammorbidiva la polvere lasciata dall’estate”.

Poi passai all’attacco de Il fidanzamento di Goffredo Parise. “Per abitudine Luigi Mannozzi si recava a far visita alla fidanzata ogni sera; non suonava il campanello ma scrollava il portone, poiché aveva imparato che spingendo un battente in un certo modo segreto e tirando la maniglia, il portone si sarebbe dischiuso; entrava nel corridoio e sempre nell’oscurità saliva le scale”.
Infine declamai le prime righe de Una relazione di Carlo Cassola. “Una volta seduto, Mansani si allentò la sciarpa, perché la lana gli dava prurito al mento; si sfilò i guanti, buttò indietro il cappello, e tirò fuori il pacchetto di Macedonia dalla tasca interna della giacca. La prima sigaretta della giornata: la migliore. L’accese, l’aspirò profondamente, e ricacciò il fumo dalla bocca e dal naso”.
L’uomo mi riservò uno sguardo interdetto. Non capiva dove volessi andare a parare. Quello era il momento di assestare il colpo di grazia.
– Ogni tanto mi viene da pensare agli scrittori italiani degli anni cinquanta e sessanta, gli Arpino, i Soldati, i Bianciardi, le Romano, i Piovene… – sospirai. – Mi chiedo chi li legga più, se a qualcuno interessi ancora leggerli, sottrarli da quel limbo editoriale nel quale sono caduti, diabolicamente equidistante sia dai programmi scolastici che dal mercato.
L’uomo fece spallucce, sembrava dispiaciuto. Forse avrebbe voluto dire qualcosa, ribattere, se non per difendere la letteratura almeno per tirare sul prezzo, ma il mio ragionamento era suonato troppo accurato.
Proseguii implacabile. – Sono convinto che per la letteratura succeda come per la musica: ogni epoca produce un sound inconfondibile che è il frutto di tante cose, ma in primo luogo di quel che sommariamente potremmo chiamare l’air du temps. C’è una nota di sottofondo negli scrittori degli anni cinquanta e sessanta che si ripete sempre uguale a se stessa, data dalla somma della fierezza di un certo provincialismo, dell’entusiasmo ingenuo rispetto alla vita, dell’’orgoglio della bella pagina.
– E questo sound irriproducibile non è inestimabile? Non dovrebbero valere molto i libri che lo costudiscono? – ribatté l’uomo, con un certo acume.
Sospirai. – Viviamo nel culto della novità a ogni costo, certi libri sono già vecchi prima di uscire. La rotazione dei titoli è talmente veloce che la vita media di un libro è di tre settimane. Basta farsi un giro su Amazon per rendersene conto…
L’uomo non si azzardò neanche a un modesto rialzo rispetto alla cifra che gli avevo proposto, arraffò i soldi rattristato, con un buffo aspetto da ladro derubato, e sparì, lasciandomi quei volumi impolverati sul bancone.
Trascorse un giorno appena. Fuori, per le strade agghindate a festa, la cattiveria del Natale imperversava. Noi commercianti tiravamo a lucido le vetrine, esponevamo la mercanzia più bella, poiché meglio di tutti sapevamo che la liturgia del Natale coincide con quella smania che, vista la povertà generale, è soltanto uno scimmiottamento del vecchio consumismo. Un Natale gioioso sarebbe stato quello che illudeva la gente di non essere diventata miserabile da un giorno all’altro, una finanziaria qui, una privatizzazione là. Stavo appunto appendendo delle decorazioni per rendere il negozio più gioviale e natalizio, quando notai l’uomo del giorno prima fermarsi davanti alla mia vetrina. Si guardava intorno circospetto, come se avesse dovuto seminare se stesso, in realtà combattendo una guerra invisibile tra riluttanza e brama. Alla fine entrò. Già mi aspettavo un qualche reclamo invece si fece avanti riservandomi un sorriso cordiale. Non mi parve vero e gli riservai lo stesso trattamento, fingendo di non riconoscerlo. Cominciò a guardare tra gli espositori, e io mi misi a osservarlo meglio. Si muoveva a scatti, quasi che a guidarlo fosse un’insensata frenesia o una inquietudine nient’affatto natalizia.
– Posso esserle utile? – gli chiesi, al solito. – Cerca un bel regalo?
– In realtà ho quasi finito.

Soltanto allora mi resi conto che aveva in mano il suo Volponi. E anche il suo Parise e il suo Cassola. E Arpino, Soldati, Bianciardi, Romano. Si era ripreso i libri che mi aveva venduto il giorno prima. – Anch’io adoro il novecento italiano, la nostra letteratura più vera, – lo provocai, per tentare di capire che intenzioni avesse.
– Sono libri bellissimi, che cercavo da tempo.
Rispose davvero così, che li cercava da tempo. Cercava da tempo i libri di cui si era appena disfatto. Quando si avvicinò al bancone per pagare presi a sudare freddo. Non poteva riprenderseli allo stesso prezzo, ne era consapevole? Volevo dirglielo ma mi trattenevo, per non interrompere la sceneggiata. Vendere e comprare erano due attività diversissime tra loro: ciascun volume adesso valeva tre o quattro volte tanto. Mi limitai a comunicare all’uomo il nuovo prezzo. Non fece una piega. Gli sistemai i volumi – una cinquantina – nelle buste con il logo del mio negozio. Continuai a guardarlo, ora con una curiosità crescente.
Poco prima che uscisse, sovvertendo ogni logica commerciale e di convenienza, quasi gli gridai. – Ne è davvero sicuro?
Troppo di fretta e sicuramente sovraeccitato non mi sentì e lo vidi sparire dalla porta. Mi chiesi chi fosse quell’uomo e come spiegare quel pentimento improvviso. Se era un innamorato che aveva dovuto vendere o se, follemente, aveva venduto per ritrovare l’amore. Forse prima delle festività ciascuno di noi desidera in gran segreto un’anomalia, qualcuno o qualcosa che non segua il copione prestabilito, e mi si inumidirono gli occhi di pianto.