La cultura del progetto italiana vive di fiammate, di innamoramenti, di storie d’amore più o meno durature, che sono spesso storie di fantasmi. Ora è la riscoperta di Global Tools e gli esperimenti di descolarizzazione del progetto e della società, poi l’interesse per le pratiche di partecipazione attiva in quartieri degradati di Napoli messe in campo da Riccardo Dalisi, successivamente la fascinazione per l’autocostruzione e l’artigianato, e così via fino ad oggi, con l’attenzione rinata per Victor Papanek, grazie anche alla riedizione del suo saggio dal titolo Design per il mondo reale. Pubblicato da Quodlibet, tradotto e curato con grande attenzione storica e critica da Alison J. Clarke ed Emanuele Quinz, il volume raccoglie il pensiero del designer, attivista e insegnante austriaco. La prima edizione è del 1971, il linguaggio di Papanek è volutamente non accademico, esortativo.

La vita dell’autore, nato a Vienna nel 1923, è segnata dal trasferimento negli Stati Uniti per sfuggire ai nazisti che nel 1939 hanno invaso l’Austria. Giovanissimo, inizia ad avvicinarsi al mondo del design dopo aver studiato e analizzato il lavoro di Raymond Loewy, celebre designer statunitense dell’epoca con un’idea di design cosmetico al servizio dell’opulenta società dei consumi americana. Papanek si dissocia immediatamente da questa visione dell’industrial design che punta a imbellettare i prodotti industriali, per dare invece forma a un progetto più etico che guardi ai risvolti sociali e ambientali della progettazione. 

Papanek incontrerà sul suo percorso anche l’architetto Frank Lloyd Wright nel 1949, poi nel 1955 completerà gli studi di design al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Il suo sguardo, la sua attitudine al progetto è chiara: il design è un modo di connettersi con il reale, con il mondo, per comprendere, pensare e agire in un’epoca drogata dal consumismo, dalla cultura dell’usa e getta.

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