Quante possibilità in più si nascondono in ciò che non viene dominato dal raziocinio della vista, ovvero senza la lucida consapevolezza di ciò che entra nei propri occhi? Guido Guidi (Cesena, 1941), figura fondamentale del nostro panorama fotografico, grande innovatore della fotografia di paesaggio urbano, tra il 1969 e il 1981 ha messo in pratica un proprio modo di intendere la fotografia, affidato prevalentemente al caso e alle forme che, guidata da esso, la realtà può assumere. La fotografia diventa il mezzo per scardinare il primo insegnamento su cui pare poggiare da sempre, quell’assoluto controllo dell’occhio su ciò che ha davanti. Di sguincio (letteralmente “di sbieco”, “di traverso”) è il libro uscito recentemente per l’editore londinese Mack – a cui i lavori di Guidi sono stati spesso affidati negli ultimi anni –, dedicato allo sradicamento sperimentale praticato da Guidi, alle decine di immagini nate mentre guardava altrove: i volti degli amici finiscono nell’inquadratura dal naso in giù, mentre parlano o ridono; gesti incomprensibili sono spezzati in sequenze senza svolgimento.

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