Mio padre è morto il 19 gennaio del 2024 alle cinque e quarantotto del mattino. Era da solo, in quel momento. Mio fratello era andato a trovarlo la sera prima, e, per telefono, mi aveva detto che era abbastanza tranquillo. La differenza oraria con il Messico, infine, ha fatto il resto. Mentre mio padre moriva, io stavo dormendo. E dormivo così profondamente che mi sono reso conto della morte di mio padre soltanto il giorno successivo, con la clemente o maligna complicità di un cellulare in modalità silenziosa.
L’ho visto per l’ultima volta il 30 dicembre del 2023, se non mi sbaglio. Quel giorno Flavio gli tagliò le unghie dei piedi, poiché si vergognava e non voleva farsi vedere così dai medici e dagli infermieri. Dovrei essere grato a mio fratello per il suo pragmatismo, non necessariamente ereditario, dato che io non sarei mai capace di tagliare le unghie dei piedi a chicchessia. Sono solito rifuggire, quasi sempre con un certo successo, dal contatto umano, soprattutto quando ha a che vedere con la sofferenza – perfino il sesso, anche se ogni tanto lo pratico, continua a sembrarmi un’attività strampalata e spaesante, dotata di un’indecifrabile relazione con un dolore molto antico.
Ecco, se dovessi fissare in un’immagine la fondazione che ha sorretto la mia famiglia, sceglierei esattamente questa: due figli in maschera riuniti intorno al letto del proprio padre moribondo, in una stanza Covid dell’ospedale di Padova.
(In realtà, mi ero premunito – inutilmente – contro la sua assenza qualche decennio fa, leggendo L’invenzione della solitudine, Patrimonio, Lettera al padre e Lettera al mio giudice…).
Ha sentito ancora una volta la voce del suo primogenito il pomeriggio del 18 gennaio, in occasione della mia partecipazione a un programma radiofonico. Angela, la badante di mia madre, mi ha raccontato che si era messo il telefonino sul petto e che mi aveva ascoltato attraverso la nebbia del dormiveglia, ma a quel punto le metastasi ossee non gli davano requie e la morfina e gli altri oppiacei non facevano più effetto (sennò mi avrebbe criticato con l’apparente distanza che contraddistingueva ogni suo affetto).
Più tardi, quella stessa sera, venne ricoverato nuovamente e, il giorno dopo, ci lasciò senza clamore, il che rappresentò una specie di contraddizione in termini per un uomo così ingombrante.
La cerimonia civile nel Cortile Antico del Bo fu davvero toccante, per le testimonianze dei suoi ex alunni e per l’auratica, ancorché terminale, presenza delle sue motociclette – la “Divina”, il Falcone del ’56, e la “Vittorina”, la moto da corsa costruita insieme agli studenti nel laboratorio dell’università e battezzata così in suo onore.
Poi venne il mio turno. Ero in procinto di leggere alcuni frammenti tratti da un mio libretto di due anni fa e dedicati a lui quando fui colto da un tremito incontrollabile, che mi impedì di scandire bene le parole e mi fece apparire pressoché tarantolato. La comprensione degli astanti non cancellò la natura quantomeno bizzarra dell’episodio, visto che si trattava del caso alquanto patetico di un uomo di quasi cinquant’anni abituato da lungo tempo a guadagnarsi il pane parlando in pubblico.
Il rito dell’“alzabara”, seppur struggente, non mi restituì quanto ci era stato sottratto dalle assurde norme post pandemiche, ovvero la semplice e, chissà, vitale possibilità di rivederlo. Quel feretro sigillato altro non significò se non la tessitura dei debiti non riscossi, delle parole dette troppo tardi, degli abbracci procrastinati oltre ogni ragionevole soglia.
La mia dialettica del congedo è, pertanto, poco dialogica, corrisposta meno dall’idioletto della tribù che dai discorsi altrui. L’automatismo dei gesti è, talvolta, rassicurante, e proprio per questo oltremodo inquietante, perché i silenzi ci determinano molto di più delle nostre parole. Le cose, ormai, sono finite da un’altra parte, essendo state svendute, e questa roba remota è quel che si dice una vita.
Ma un giorno, prima o poi, il nulla ci ripagherà con la stessa moneta, come in un’eclissi totale di sole a Durango. La morte, in fondo, è un autoritratto, giacché nelle fotografie di un tempo i padri e i figli si rassomigliano sempre di più: un po’ invecchiati, a poco a poco si dissolvono in fumo.
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C’è un che di corrivo negli ostinati tentativi di descrivere il lutto: morto il padre, il libro si fa, praticamente, da sé. Ne abbiamo avuti tanti, forse troppi, tra il Ninfeo di Villa Giulia e gli aperitivi démodés.
Di consueto, l’urgenza antropologica si confonde con il malessere esistenziale e con la fiacchezza intellettuale. D’altronde, non c’è niente di speciale nei morti, e nemmeno nei vivi. Il corpo stinge ma le fotografie sopravvivono e si colorano di tonalità nostalgiche – che sommaria ingiustizia, essere meno di un procedimento chimico o di un simulacro digitale…
Non è facile discendere dai lombi di due persone singolarmente belle e intelligenti (non potrebbe esistere – credo – una migliore promessa di infelicità). Pur non essendo affatto brutto e non del tutto stupido, sin dalla prima infanzia venni costantemente paragonato ai miei genitori. Bisogna dire che ero un bel bambino, anzi, un “piccolo lord”, un minuscolo e saccente saltimbanco che recitava a memoria, arrampicato su una sedia, le poesie che mi chiedevano, alla stregua di un juke-box, i loro amici.
Il tempo, alla fin fine, non ha lavorato a nostro favore, avendo sciupato, al di là dei nostri corpi, qualsiasi altra esperienza, traballante e fugace come ciascuno di noi. E difatti, ogni mattina, quando mi guardo allo specchio, non faccio che comprovare e ripetere ad alta voce l’inevitabile verità rivelata da Jeanne Moreau a Maurice Ronet in Fuoco fatuo: «Faccia da vecchio!».
Mia madre è sempre stata accompagnata da un’ombra, dall’anima nera di una malattia strisciante e indefinibile. Il suo psichiatra la chiamava “depressione endogena” e la curava, da par suo, con dosi massicce di modernissimi derivati di non so che cosa. La diagnosi di spondilite anchilosante arrivò, invece, nella primavera del 1998, come una sorta di ominosa strenna fuori stagione. In quell’epoca vivevo a Parigi, in una chambre de bonne del settimo arrondissement, epperò ricordavo con perturbante frequenza, mio malgrado, i pomeriggi trascorsi a Mestre da bambino, un venerdì dopo l’altro, passeggiando senza meta assieme a mio padre e aspettando che la donna della nostra vita uscisse dalla bottega del suo mercante di spezie.
All’incirca trent’anni fa, il mio amico Claudio – l’unico analista che non mi ha mai truffato – mi disse che mio padre non era solamente un padre, bensì un grande padre mancato.
Organizzava delle formidabili cacce al tesoro, escogitava dei passatempi realmente sbalorditivi e si ingegnava in ogni modo per far sì che i miei compagni di classe non scoprissero la ragione per la quale sua moglie festeggiava a letto il compleanno del proprio figlio.
Primo laureato nella storia della sua famiglia, possedeva uno straordinario talento manuale, una naturale attitudine a risolvere qualsivoglia problema pratico. Le sue invenzioni sono tuttora leggendarie, dal “Vitocifero” – una bicicletta futurista, a conduzione “sdraiata” – allo scooter a tre ruote. Sapeva aggiustare tutto, davvero tutto, però non è riuscito ad aggiustare nessuno di noi, neppure se stesso.
Ha affrontato un tumore al quarto stadio come se fosse una questione tecnica di cui venire a capo, facendosi operare immediatamente, andando in motocicletta ad Aviano per la radioterapia e sottomettendosi ai molteplici cicli di chemioterapia e alle interminabili trasfusioni di sangue (e finanche alla terapia ormonale, un’intollerabile “castrazione chimica”, a suo avviso). Ciò nonostante, ha perso la partita.
Ho assistito al pianto di Vittore Cossalter in appena un paio di occasioni – il giorno in cui me ne andai di casa, nel dicembre del 1998, e la notte in cui, a Città del Messico, ci svelammo una volta per tutte. Le lacrime successive riguardarono, piuttosto, la desistenza di un essere umano destinato a scomparire molto presto, ma qui vorrei soprassedere e sospendere il giudizio.
Preferisco ricordare le sue amorevoli, ardue idiosincrasie, che magari resisteranno, autentiche e conflittuali, persino in me; e rammemorare il professore ordinario di Meccanica applicata alle macchine che non mi rivolse la parola per un intero semestre, quando osai abbandonare, contro la sua volontà, il corso di laurea in Giurisprudenza (in seguito avrebbe confessato al novello dottore di ricerca in Storia di aver commesso un minimo errore di valutazione e di averlo spronato, forse, in eccesso).
L’attesa, comunque, non fu completamente infruttuosa, considerato che – rovistando fra le sue carte nell’imminenza del funerale – rinvenni una cartella con le mie pubblicazioni, ordinate cronologicamente. Le eredità sono sempre asimmetriche, e quindi perennemente insoddisfacenti. Anzi, essendo fatalmente tardive, non servono a niente nella vita e vengono dissipate nella letteratura.
E allora dovremmo accettarle, secondo me, al di là delle ferite ricevute o inferte, come un legato di mortalità e un contrassegno di umanità, che ci permettono di approssimarci, attimo dopo attimo, al bosco ceduo del nostro avvenire.