Ho sempre amato le bancarelle dei libri usati. Se non trovi mai ciò che credi di cercare, in compenso c’è spesso quello che stai cercando.
Io chissà cosa provavo a procacciarmi il pomeriggio di una fresca primavera novecentesca in cui misi le mani sull’edizione Rizzoli 1950 della biografia rimbaudiana di Enid Starkie, pubblicata a Londra nel 1938 e destinata a una corposa revisione «in seguito all’acquisizione di nuovi documenti» nel 1961. Il volume, di per sé, non si può dire che attirasse l’occhio. Somigliava ai miei libri di semiotica: zero illustrazioni e molte pagine da liberare con il tagliacarte. Non mi era mai venuto in mente di leggere la biografia di un poeta: benché rappresentassero gran parte delle mie letture e dei miei studi – o forse proprio per quella ragione – stentavo a considerarli persone con una vita. Erano angeli malati, esseri essenzialmente contemplativi, oppure monumenti nazionali buoni per la toponomastica.
Ma la cara Enid, questa simpatica dublinese francomane, sapeva il fatto suo. Già la descrizione di Charleville adagiata sulle verdi colline della Mosa, col suo lirismo geografico da guida turistica d’antan, mi aveva catturato. E le peripezie della famiglia Cuif-Rimbaud, nata dall’improbabile unione di un capitano dell’esercito reduce dalla colonia d’Algeria e di una donna affetta da una micragna rurale che solo in rarissime occasioni le avrebbe permesso di mettere piede fuori della sua prefettura campagnola, non rappresentavano forse un’epopea del mondo agricolo inchiodato al suo ciclo di accumulazione e dissipazione della roba – oltre che, s’intende, a una rigorosa pratica dell’alcolismo?
E poi entra in scena Arthur. La Starkie è un’abile cucitrice di aneddoti e notizie, sa dare senso a ciò che non ne ha – in breve: alla vita – componendolo negli schemi del mito. La nascita prodigiosa. I segni della grazia. La mostruosa precocità, nonché l’ostilità, di quel figlio dagli occhi azzurri. La sua solitudine, la sua ribellione da provinciale. Certe frasi ancora le ricordo, come le lessi aprendo a caso il libro quel pomeriggio: La vita gli sembrò poi sempre un oltraggio.
La poesia doveva per forza trovarsi altrove. Ed ecco il Veggente. Sfrontatezza leggendaria. Voici de la prose sur l’avenir de la poésie. Parigi. I Parnassiani. Verlaine ventiseienne, sposato con un figlio in arrivo nella sua casetta di Rue Nicolet, proprio sotto la collina di Montmartre. Les Vilains Bonshommes ubriachi fradici che insultano l’assente François Coppée. L’Album Zutique. Il ritratto di Fantin-Latour. Liti, aggressioni, sbronze. Della fantasmagoria aneddotica generata dal passaggio di Arthur sulla Rive Gauche nel suo primo soggiorno quello che più s’imprime nella mente dello studente al primo anno di lettere è la pietra angolare dell’iconografia rimbaudiana, il ritratto fotografico in cui Étienne Carjat ha saputo trasformare lo zotico ardennese nell’incarnazione del Veggente (oltre che nell’icona di un culto pop) nell’unico modo possibile: facendone puro sguardo. Scrisse molti anni dopo il suo amico Ernest Delahaye: «La sua sola bellezza era negli occhi di un azzurro pallido irradiato da un azzurro scuro – i più belli che abbia mai visto – con un’espressione di coraggio pronta a qualsiasi sacrificio quando era serio, di una dolcezza infantile, squisita quando rideva, e quasi sempre di una profondità e di una tenerezza stupefacenti».
Eppure la prima volta che mi apparve in un sogno, Rimbaud era senza occhi. Era quello degli autoritratti fotografici di Harar del 1883, in casacca bianca in un giardino di banani. Il volto di una durezza geologica. Le orbite, due macchie scure impenetrabili. Restava immobile a braccia conserte, come nella foto. Taceva e mi fissava con l’espressione indecifrabile di quelle macchie nere.

Non fui contento della visita. Il neofita disprezza il viandante dalle suole di vento, il Rimbaud africano, l’esploratore e il commerciante, il non-poeta insomma. Per amore della logica romantica e timore delle infinite dispute sulla datazione dell’addio alla scrittura, preferirebbe fosse morto subito dopo la Saison en enfer, testamento perfetto. Rimbaud è morto a trentasette anni, ma gli sembrano già troppi.
Due mesi dopo l’incontro con Enid Starkie eccomi a Charleville, davanti alla tomba di famiglia, dove la stele di Arthur è affiancata a quella della sorella Vitalie, morta – lei sì romanticamente – di tisi a diciassette anni. Esisteva un Quai Arthur Rimbaud e, proprio di fronte, attraversata la strada, l’edificio seicentesco del Vieux Moulin era occupato dal Musée Rimbaud dove era in corso una mostra organizzata dall’Istituto del mondo arabo intitolata Un sieur Rimbaud soi-disant négociant. Sul manifesto c’era uno degli autoritratti del 1883, quelli senza occhi. All’interno del museo c’era una biblioteca che conteneva ogni riga scritta su Rimbaud. Bastava sedersi, compilare un modulo di richiesta. Sulla rue du Moulin, che dalla Place Ducale porta alla Mosa, le pasticcerie esponevano cartonati a grandezza naturale e vendevano scatole di cioccolatini con la faccia di Rimbaud, quello di Carjat però, il Veggente.
«Rimbaud è l’Alsazia-Lorena della nostra letteratura. Predestinato alle annessioni», scriveva René Étiemble già a metà degli anni Trenta del Novecento: due frasi che contengono non solo una descrizione del destino critico del poeta, ma anche una profezia su ciò che aspetta il neofita di ritorno da Charleville.
Le composte certezze anglosassoni della Starkie vanno in fumo. La sensazione, per lui, è che il libro esploda scagliando frasi in ogni direzione, e che da ognuna di quelle frasi nascano nuovi libri destinati ad esplodere a loro volta. «Mostro di purezza» (Jacques Rivière), «teppista meraviglioso» (Philippe Soupault), «mistico allo stato selvaggio» (Paul Claudel), «pubertà perversa e superba» (Stéphane Mallarmé), «rospo pustoloso» (Rémy de Gourmont). Da frase nasce frase, da libro nasce libro. Il nostro studente di lettere corre da uno all’altro. Rimbaud occultista, alchimista, simbolista, surrealista, esistenzialista, marxista, colonialista e anticolonialista, ermetico, anticlericale, fervente religioso, musulmano, folle, precursore di tutto (e il saggio di René Sylvain del 1945 taglia corto e si intitola saggiamente così: Rimbaud le précurseur).
Leggere saggi su Rimbaud gli insegna poco sul poeta, ma molto sulla natura dei libri e dei loro autori. All’inizio ogni frase stampata è Vangelo, per il solo fatto di comparire dopo un frontespizio. Gli hanno insegnato a credere ai libri più che in se stesso.
Rimbaud ha, su critici e scrittori, l’effetto di rivelare la loro vera natura, sempre più nascondendo la propria. La sorella Isabelle tiene un diario degli ultimi giorni del morente Arthur ricoverato all’ospedale della Conception a Marsiglia nel novembre del 1891. L’agonizzante, imbottito di morfina, delira. In quei racconti, in quelle descrizioni, la donna, anima murata viva, trova della bellezza. Possiamo capirla. Ma i biografi che scrivono che quei misteri verbali sono le ultime Illuminations, che quindi Arthur non ha mai smesso di essere poeta? Cialtroni innamorati.

La biografia brucia intere carriere, come quella di Alain Borer, una vita folgorata dalla misteriosa iscrizione RIMBAVD su un pilastro del tempio di Luxor, un volume dopo l’altro sul post-poeta africano: tutta aria fritta. I testi sono una calamita per i primatisti dell’arrampicata libera esegetica, come Robert Faurisson. Sì, proprio lui, il negazionista della Shoa.
Ai giorni nostri, in Italia, l’idea che scrivendo di una poesia si possa aspirare a una fama qualunque, anche settoriale, accademica, dipartimentale, è al di là del ridicolo. Ma nel 1961, in Francia, quando pubblica su Bizarre le quarantasette pagine del suo studio sul sonetto Voyelles, Faurisson è un professore di liceo di provincia in cerca di celebrità. Le vocali del titolo, e i corrispondenti colori, sono da intendersi come rappresentazioni di parti specifiche del corpo femminile. Non ve ne eravate accorti? Ma l’avete letto? Il saggio si intitola proprio: Abbiamo letto Rimbaud? La A, colore nero, ovviamente da rovesciare ai fini di una migliore comprensione. Faurisson già mostra tutta l’ingegnosa vanagloria dei suoi scritti successivi. Allo studente rimbaudiano saltano i nervi.
A questo punto, tanto vale leggersi Coppée:
Rimbaud, fumiste réussi
dans un sonnet que je déplore
Veut que les lettres O, E, I
Forment le drapeau tricolore.
Poi scopre René Étiemble, Le mythe de Rimbaud. Non Rimbaud, il mito. Questa ventata decostruzionista corrode o disintegra l’aneddotica, mette in crisi il pittoresco, straccia la bohème pidocchiosa, riporta tutti con i piedi per terra. È un libro, in realtà, su come sono fatti i libri. Di altri libri. A loro volta fatti di altri libri. Una catena ripercorrendo la quale spesso si scopre che a mancare è proprio il primo anello. La fede cede il passo allo scetticismo radicale.
Rimbaud? Balle.
Sono passati molti anni, il Novecento è ormai alle spalle, bellissimo, terribile, ultimo secolo dei libri. L’ora nuova è quantomeno assai severa. Rieccomi dalle parti di Charleville, ma non in città bensì a Roche, terra di lupi, dove Arthur scrisse la Saison e dove il cielo nero non promette niente di buono. Alla ricerca della fattoria di Mme Rimbaud. Passeggio accanto a capannoni, alti muri di cinta, macchine agricole irte di lame come carri da guerra arenate nel fango ai lati della strada. In un cortile, affondata in una pozzanghera, c’è una vacca stecchita con il ventre squarciato e le zampe dritte contro il cielo. Proprio lì, in quel ventre cavo, vedo cadere le prime gocce. Il temporale si fa avanti scalpicciando con un milione di piedi, la pioggia brilla nella luce obliqua e mi corre incontro. Allora filo dritto alla macchina, controllo i finestrini e riparto in fretta e neanche mi accorgo che la fattoria era proprio lì accanto, quello che ne resta, un pezzo di muro con una targa: qui visse, qui scrisse, qui abitò.
Pazienza, penso. Rientro in città.
Al Musée Rimbaud c’è un’esposizione di manoscritti. Funziona così: la sala è attraversata da un’enorme cassettiera di legno chiaro e dentro ogni cassetto, sotto un vetro protettivo, c’è il manoscritto di una poesia o di una lettera. Quando lo apri parte un audio con un attore che recita il testo. Cher maitre, nous sommes au mois de l’amour. Non faccio in tempo ad ascoltare la lettera che nel museo si riversa una scolaresca di liceali di Charleville, e ognuno si precipita ad aprire il suo cassetto. A ciascuno il suo Rimbaud. E così la sala risuona di migliaia di parole che si sovrappongono, si mischiano, rimbombano, diventano incomprensibili.
Zut alors, è ora di ripartire.