Dopo i contributi di Walter Siti, Francesco Pacifico e Filippo D’Angelo, continua la serie di pezzi sull’arte della scrittura pubblicati grazie alla collaborazione di Snaporaz con la scuola Belleville.

I passaggi qui riportati provengono dal romanzo Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, pubblicato in originale nel 1947 da Jonathan Cape, e sono tratti dalla mia traduzione pubblicata da Feltrinelli nel 2018 (dopo la storica traduzione di Giorgio Monicelli, risalente alla prima edizione italiana del 1961). Qui sono confrontati con alcuni consigli di scrittura reperibili un po’ ovunque.

Trova una trama avvincente

Nel corso di Sotto il vulcano non succede nulla. Tre persone si incontrano in una città del Messico di nome Quauhnahuac. Una è un Console senza più consolato, l’altra è la ex moglie tornata da lui e la terza è il fratello del Console, nonché ex amante della moglie. Parlano moltissimo. Bevono parecchio. Passeggiano per la città. Fanno una gita in campagna per vedere un rodeo. Due di loro muoiono (comunque la tragedia viene annunciata nel primo capitolo, appena aperto il libro). Fine. Eppure Lowry utilizza l’unità di luogo e azione per, come dire, comporre musica. Quello del libro è un continuo movimento a fisarmonica in cui a ogni passo dei protagonisti corrisponde un pensiero a ritroso e in avanti. È come una danza statica, che però in quel tremito (e mai parola sarà più esatta, visto l’alcolismo del Console) trova una vibrazione, una risonanza, che ci tiene avvinti. Una volta entrati nel vortice di Sotto il vulcano è difficile non restarne ammaliati: le digressioni, le citazioni, i deliri diventano – come i molluschi aggrappati alla barca, come le note della Divina Commedia di cui parlava Osip Mandel’stam – parte integrante, inestirpabile della storia. Non saprei come altro dirlo, ma la trama è il libro stesso.

Crea un conflitto

Riuscirà il Console a bere un’altra tequila? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi, in fondo in fondo, a metterci un paio di mescal?

Rendi coerenti i personaggi

Perché diavolo il Console, che spasima per riavere la moglie Yvonne, quando se la ritrova davanti all’alba di quel fatidico giorno, non la vuole più? Che senso ha impostare un intero romanzo su uno struggimento esistenziale di profondità abissali per poi buttare tutto al vento durante una semplice scampagnata con gli amici? Non ci si riesce a credere nemmeno per un secondo. Il libro dovrebbe cominciare con il Console che beve al bancone del bar e chiudersi con lui che beve al ricevimento di un secondo matrimonio. Perché mai dovrebbe considerare lui e Yvonne come il Popocatépetl e l’Ixtaccihuatl, i due vulcani che dormono e si contemplano, fermi e irraggiungibili, come le due metà di una roccia dilaniata, despedida? Eppure proprio in questo stallo, in questa contraddizione disarmante, il Console – fratello di Ahab, lettura prediletta di Lowry – trova un senso: non può vivere senza amare, amare è per qualche insondabile motivo impossibile, e allora anche vivere è insensato. Per 426 pagine ci ritroviamo a partecipare ai deliri di un alcolista ridicolo senza riuscire a capirlo ma senza mai nemmeno riuscire a evitare di provare compassione, comprensione, perfino affetto per lui e per il fratello e per la ex moglie e per tutte le marionette della vicenda e per il dolore del grande Messico e infine per tutto il genere umano, perso a dibattersi nel desiderio, nell’adulterio, nel dolore, nell’amore in attesa di uno sconvolgimento. O di una barranca, il baratro dove verrà scaraventato il corpo del Console e che somiglia tanto a una forma di pace, di requie.

Stabilisci un obiettivo

Riuscirà il Console a bere un’altra tequila? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi, in fondo in fondo, a metterci un paio di mescal?

© Earl Leaf / Michael Ochs Archives /Getty Images

Non scrivere periodi troppo lunghi

Prendete fiato.

Anche il suo corpo era quello di Yvonne, le sue gambe, i suoi seni,

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