Si è parlato molto di esordi e di esordienti, in queste settimane, a seguito del solito elenco delle uscite di inizio anno compilato dal sito «il Libraio» sulla base delle veline degli uffici stampa, ossia con riferimento agli autori, al loro pedigree (Holden, Premio Calvino ecc.) e a pochi elementi di trama, snocciolati col solito ufficiostampese: un’intensa amicizia al femminile una vita senza condizionamenti il tragico segreto della violenza subita la purezza del loro incontro una storia di rinascita la solitudine e la forza di amare, di bene in meglio. Il web protesta: questi libri sembrano tutti uguali, raccontano storie di famiglia o di adolescenza (Marco Malvestio), spesso queste famiglie sono ingombranti in senso non psicoanalitico ma reputazionale (si veda la saga di «Roma Nord come il Vietnam» dei Castellitto’s children). L’intervento che più mi ha colpito è stato quello di Giulia Caminito, che forse in quanto a sua volta figlia non proprio di sconosciuti si è sentita in dovere di dire la sua. E non, come atteso, invitando a badare un po’ di più a quello che si scrive, invece di accanirsi su cognomi (e titoli, cover o strilli editoriali, aggiungo), il che sarebbe stato legittimo e anzi sacrosanto. No: Giulia Caminito scrive che l’esordiente va lasciato in pace perché l’approdo in libreria per la prima volta è un momento “d’amore” e non va assolutamente sporcato con le maldicenze e i retropensieri legati alle camarille del mondo editoriale. Povero Calvino, dai, l’aveva detta un po’ meglio, a proposito dell’esordio

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