È stato il libro di cui tutti parlavano, come ogni tanto accade nei social: pareva che fosse mandatorio averne contezza e di sicuro averci dato almeno un’occhiata in libreria. Un’occhiata, però, si capiva anche a libro chiuso o appena sfogliato, non sarebbe stata sufficiente se non a lasciarsi urticare epidermicamente dal tema scabroso (il racconto di uno stupro da patrigno a figliastra), e forse sorprendere dalla piegatura inattesa della focalizzazione (dalla parte o meglio tra i pensieri dello stupratore, magari via Humbert Humbert, volentieri citato), ma non a far emergere la questione cruciale su cui Triste tigre, il memoir di Neige Sinno rifiutato da diversi editori prima di approdare alla pubblicazione per P.O.L. (in Italia Neri Pozza), interpella il lettore. Questione coincidente col tema più come forma che come contenuto: come si debba parlare, in letteratura, di certi argomenti, e poi anche, in modo più essenzialista, cosa è la letteratura e cosa può fare o non fare. Dove può spingersi, cioè, e dove deve fermarsi per non diventare oscena, blasfema, «sbagliata» (così l’autrice). Quando sospende il narrato per farsi autoriflessiva, Sinno convoca una serie di esempi che riporterebbero nel circuito vittimario la sua narrazione di testimonianza, esempi ai quali peraltro trova lei stessa infondato e inopportuno paragonarsi: i libri (o film) sulla Shoah, le torture, altre situazioni limite di violenza o magari di violenza del suo stesso tipo – abusi sui minori – ma in diverse condizioni. Perché, si chiede a un certo punto, assumiamo che Lolita sia letteratura, anche se parla di stupro ai danni di una (appena) ragazzina? Perché sappiamo che l’autore, Nabokov, non sta confessando un suo crimine, sotto le mentite spoglie del romanzo, si risponde. Salvo chiedersi subito a seguire, e mutuando il punto di vista della parte più disinvoltamente progressista del pensiero corrente, se sia indistintamente un crimine quello di abusare di minori, perché non tutti i minori sono uguali, e perché è il concetto stesso di minore-età connessa allo stato di minorità ad essere sconfessato dalla moderna concezione dell’infanzia, da Ariès e Piaget a Dewey.

Non è di questo però che vorrei qui provare a ragionare, ma della prima questione, ovvero del perché Nabokov sia uno scrittore rispettabile malgrado la seduzione narrativa per le “ninfette” e soprattutto perché alcuni, come sostiene l’autrice, divengano artisti con un’infanzia per accidente difficile e altri siano dei traumatizzati a vita riconvertiti in artisti proprio via trauma. L’inghippo secondo me sta in quest’ultima dicotomia, che porta l’autrice a interrogarsi metanarrativamente su come avrebbe potuto, seguendo un tracciato diverso, trasformare un memoriale confessional in letteratura, aggirando le trappola della testimonianza. In casi come il suo, aggiunge a pronta rettifica della sola ipotesi, questa operazione è «sbagliata» eticamente ma soprattutto anti-letteraria perché la letteratura è uno spazio che consente di muoversi oltre i confini dell’umano e che però sull’umano si interroga, anche e soprattutto quando ne guarda dritto in faccia l’orrore, senza travestimenti o infingimenti. Il problema però, prescindendo dal contenuto e dal caso di specie, è che l’idea rivendicata da Sinno è sì condivisa ma condivisibile solo in parte, e cioè fin quando ricolloca  la letteratura in quella zona franca che sola può garantire l’affondo in picchiata con atterraggio spericolato dove tutto è consentito e niente deve essere risparmiato al lettore (vieppiù se niente è stato risparmiato all’autore empirico  – un po’ come dire: hai voluto rovistare nel mio marcio, perché dovrei preoccuparmi di arearti i locali).

Sinno dovrebbe considerare che chi obietta ai libri-testimonianza di non essere letteratura non lo fa perché voleva più aggettivi inconsueti, più agudeza, più ordito, più confezione («soluzioni inaudite che piacerebbero ai critici intelligenti», ipotizza). Magari ne voleva di meno, ma si sarebbe atteso una messa in forma

Dove non persuade più è però quando questa idea di letteratura si affianca e sovrappone a una oramai irricevibile estetica del ben fatto, della retorica ampollosa, dell’orpello. In altre parole Sinno dovrebbe considerare che chi obietta ai libri-testimonianza di non essere letteratura non lo fa perché voleva più aggettivi inconsueti, più agudeza, più ordito, più confezione («soluzioni inaudite che piacerebbero ai critici intelligenti», ipotizza). Magari ne voleva di meno, ma si sarebbe atteso una messa in forma, una presa di distanza dalla parola e perché no dal contenuto come “evento” e una rimodulazione o rimeditazione del vissuto (e che si tratti di vissuto autentico o simulato poco importa per chi non conosce realmente l’autore empirico e non ha necessità di aderire o, come si ama dire oggi, empatizzare con lui): insomma, quel che rende Lolita sostanzialmente diverso, al di là del tema, del resoconto di un crimine restituito da un verbale, da un fascicolo giudiziario, un podcast giornalistico o un servizio di Gialloreto Carbone a Chi l’ha visto, non è lo stile inteso come abbellimento (e dunque sbagliato, rispetto a un tema così ostico da maneggiare), ma come messa in forma del dilemma. Il problema non è tanto misurare il tema sulla minore o maggiore possibilità di aderenza alla facies letteraria (nella fattispecie, il tema sarebbe in partenza anti o paraletterario) quanto identificare la letteratura con un’operazione di contouring bellettrista: nascondiamo con un bel sintagma, un’ipotassi peregrina, una torsione semantica il pus del mondo, le fetenzie reidratiamole e sfumiamole con una buona pennellata di prosa ed ecco che la narrazione di fatti estremi come lo stupro diventa, ci dice Sinno, immorale. 

Ma è questo concetto che sottendiamo quando invochiamo la letteratura, la necessità degli orpelli? Ed è per questo che non vogliamo (alcuni di noi – noi critici, noi lettori non di massa, noi quattro gatti, probabilmente) leggere o non soltanto, come unica o principale opzione, memoir o resoconti, referti o testimonianze? Perché non sono ornati

Quando ho sentito parlare per la prima volta di questo libro ho immediatamente pensato che non potesse a nessun patto sfuggire al paradigma vittimario (su cui tanto si è scritto nell’ultimo decennio a far data dal libro di Giglioli): l’accadimento da cui muove, lo stupro reiterato di una bambina di otto anni, il modo in cui viene oscenato, se mi si passa il neologismo, ovvero l’insistenza su particolari (ortaggi anali inclusi) che rievocano scene raccapriccianti per ricordare al lettore a mo’ di orecchiette sulla pagina di cosa si stia parlando, ove non fosse abbastanza esplicito, per guidarne unilateralmente la reazione (e se non inorridisci, di che inorridir suoli), il tono autoriflessivo, inevitabilmente riottoso alla pacificata coesistenza col trauma sebbene da una prospettiva di apparente superamento – ma con qualche inevitabile concessione all’autocommiserazione o esaltazione per l’appunto vittimaria-  non aiutano a prendere le distanze dall’evento per proiettarsi in una dimensione diversa dal ricatto emotivo, e anzi di quell’evento e di alcuni dei suoi aspetti obiettivamente disgustosi si chiede al lettore di farsi carico a sua volta come testimone. Non si tratta di punti di vista ma di evidenze drammatiche, confermate peraltro da un esito processuale di condanna, come apprendiamo dalla narrazione. Chi magnificava nei social Triste tigre assicurava fosse un libro stupefacente per il modo coraggioso in cui l’autrice si autorappresenta entro lo spazio del terrore: bambina predata e sottomessa che tace, e per anni non riesce a uscire dalla cantina.

Al momento non ho la controprova ma a distanza di anni temo che di “Triste tigre” ricorderò che aveva un brutto titolo e raccontava una brutta storia

Torna in mente per parentela tematica e distanza tonale Elizabeth, la vicenda di cronaca nera riproposta da Paolo Sortino nel suo fortunato romanzo d’esordio. Lì la questione era ancora più delicata perché l’indagine sul Male fattosi stupratore passava attraverso l’appropriazione di una vicenda altrui da parte di uno scrittore incoercibilmente voyeur. Eppure, con tutte le diffidenze pregiudiziali, il libro di Sortino a distanza di anni riesce a restituire alla memoria del lettore un’immagine della donna imprigionata e stuprata di evidenza plastica: l’Elizabeth letteraria è ancora quella creatura inerme che aderisce al proprio carcere fino a identificarsi con le mura, a farsi parete, assenza di respiro, pura datità. Non è una questione di aggettivi, ma di creazione di un contesto immaginifico dove chiunque, attraverso le parole, può entrare nell’orrore come dimensione straordinaria e vicinissima, perturbante in senso proprio, in una immedesimazione straniata e non empatica in senso vittimizzante: è questo che fa la letteratura (forse, o anche questo). Mentre scrivo la recensione torno velocemente alle righe di Sinno per trarne qualche citazione con l’ovvio sentimento di disagio o di autocensura per aver applicato dei rigidi criteri tassonomici a una vicenda che ha i contorni dell’incubo. Come valutare col righello letterario il perimetro di quella cantina mostruosa? Io non sono, però, qui per resocontare i fatti tremendi delle vite altrui, né per testimoniare ai processi: non devo assolvere, non devo condannare. Sono un lettore, voglio immaginare, voglio entrare nella mente di Mossbrugger come Musil, voglio ricordarmi di Elizabeth-parete a distanza di anni. Al momento non ho la controprova ma a distanza di anni temo che di Triste tigre ricorderò che aveva un brutto titolo e raccontava una brutta storia (uno sporco segreto di famiglia, avrebbe detto il tale).  

«Mio padre è capace di comunicare solo così, attraverso la propria sofferenza»: è una frase emblematica de L’abbandono (La nave di Teseo, 2024) di Valentina Durante, romanzo altrettanto familiare del precedente, che ha al suo centro, o meglio nel suo baricentro, un rapporto incestuoso tra fratelli. Il caso è tutto diverso dal libro di Sinno perché il regime narrativo è qui interamente finzionale e la costruzione romanzesca piuttosto tradizionale: come in Cechov, sappiamo che la pistola (metaforica ma poi non del tutto) che intravediamo dalle prime pagine, a un certo punto, sparerà. In questo caso abbiamo una serie di indizi di dissolvimento e dissoluzione (sin dal titolo) oltre alla costruzione sapiente di una storia che procede per progressivo allargamento di macchina dando corso alle backstories d’infanzia. L’attenzione dell’io narrante ai personaggi passa tutta attraverso le loro sofferenze (o insofferenze), come da frase-programmatica, e la notomizzazione delle malattie con le tabe rispettive. L’iperdescrittivismo che scandisce gli eventi non è un vezzo ma la necessaria condizione estenuativa in cui si trova chi vive (ancor prima di chi scrive) le emergenze o i disastri del microcosmo familiare.

Il libro di Durante eccede dove quello di Sinno difetta: in letterarietà come forma e costruzione, ed è per questo, forse, che manca l’obiettivo di farsi fino in fondo disturbante, come si diceva una volta

Se l’andamento del récit è lento e il tutto si svolge attraverso le ore di una (mezza) giornata – un po’ come nella tragedia antica -, ci sono degli episodi mnestici che si staccano dalla scansione monotona del quotidiano e si isolano per inattesa spietatezza: su tutti quello dei gattini deietti, che suggella la dipendenza affettiva della protagonista dal fratello anaffettivo (perché non abbastanza amato, con automatismo viceversa un po’ atteso). Accanto alle diagnosi cui si accompagna la cronaca epifenomenica dei comportamenti familiari troviamo così la balia dei corpi altrui, insensatamente massacrati, e l’abbandono del proprio alla pruriginosa violazione (nella prima vera e propria scena d’incesto), fino al disturbo ossessivo compulsivo di identificarne metonimicamente una parte con la colpa (alla Macbeth) o con la possibile espiazione. La crudeltà della famiglia, contesto in cui qualsiasi sentimento trova occasione di verifica entro uno spazio estremamente ridotto, è un tema qui affrontato in modo tutto diverso, dicevamo, da Sinno.  In un modo interamente letterario, con tutti i rischi del caso e qualche inevitabile scivolata (si incastrano in modo prevedibilmente cechoviano la fissazione paterna per i dossier dei morti ammazzati e la scena finale – o meglio terminale – che fa coagulare proiezione, desiderio e castrazione).

Il libro di Durante eccede quindi dove quello di Sinno difetta: in letterarietà come forma e costruzione, ed è per questo, forse, che manca l’obiettivo di farsi fino in fondo disturbante, come si diceva una volta. Se la letteratura è quella caduta libera verso il fondo nero senza nessuna maniglia, qui la trama sapientemente architettata costipa troppe istanze in un solo corpore vili. Il male consanguineo non ha quasi mai una causa eclatante ed è spesso soltanto nella natura delle cose: andare a cercare, dunque, dove e perché s’incista nei rapporti senza una tesi, senza un partito, senza un ruolo rigidamente incarnato, potrebbe essere la via preferibile (ma con tante deviazioni e perdite e deragliamenti frapponibili). Costruire, perciò, un percorso di avvicinamento al nucleo di verità senza un punto di partenza e di arrivo, senza una mano tesa (dal lettore, più che al lettore, in entrambi i libri): un salto nel nulla, fuori dalla pedana. Perché no, la pedana non è la letteratura. Lasciarsi scappare il piede fuori, dunque, per aver capriolato su su in alto come Simone Biles: è questa, di fondo, la scommessa dello sport della scrittura. Che non guarisce, dice giustamente Sinno, e proprio per questo non fa sconti a nessuno, non prende a braccetto e non rigetta nessun tema in particolare, non rispetta nessuna gerarchia (o supremazia), nemmeno quella del pianto: non ha pietà, infine, fuori e dentro la pagina. 

Neige Sinno, Triste Tigre, Neri Pozza, 2024.

Valentina Durante, L’abbandono, La nave di Teseo, 2024.