Per le temperature basse abbiamo deciso di chiuderci in un appartamento abbandonato in una zona periferica. Se guardiamo fuori dalla finestra il freddo abbacina le strade, le violenta con la brina.

È un’estate perfetta e fredda, ci spogliamo a turno per ricostruire un senso. Ci guardiamo nudi, perché pensiamo di poter essere al contempo licenziosi e puri. Siamo amici da tanto tempo, non ci siamo mai conosciuti.

Con i piedi pestiamo il pavimento e decidiamo di mettere fine a questo spettacolo. Ad ogni spettacolo del mondo, di poter essere solo e soltanto in questo momento. Facciamo esercizi zen, respiriamo gonfiando la pancia, siamo sdraiati sulle piastrelle fredde.

Il pavimento è una pancia dura che ci accoglie. A lui possiamo sempre tornare quando qualcosa ha bisogno di sedimentare, di riscoprire un’appartenenza al mondo.

Il mio corpo mi dice di smetterla di spogliarmi davanti a tutti. Il mio corpo mi dice anche: spogliati in fretta. Ho freddo e devo rimettermi ogni vestito. Appartenere a se stessi o essere mondo?

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L’uomo che sei mi ha detto di seguirti, la donna che sono ha perso un po’ di sangue
per strada. Abbiamo vagato attraverso i detriti,
raccogliendoli sono diventati punti di luce da riflettere lungo le pareti.
Abbiamo acceso qualche lampada, attenti a non ferirci i piedi.
Siamo usciti di scena, in silenzio.
Una cornice ha perimetrato lo spazio vuoto.
Ha detto: questo spazio c’è, esiste.
Poi si è frantumata, sbriciolata e lo spazio è stato redento.
E poi e poi.

Abbiamo cercato in un giardino rotto pezzi di noi nascosti sotto le macerie
frammenti da portare alla luce e al freddo.
Ne abbiamo trovati alcuni e non combaciavano.

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Ci siamo spogliati a turno perché non volevamo credere di dover davvero morire. Che questa cosa si potesse redimere, moltiplicare, appiccicare alle pareti. Nudi eravamo sagome luminose e vuote, pronte per un’eternità che non potevamo conoscere.

Dietro i parati qualcuno abbozzava una danza. Era un modo per sentirci uniti e mai soli, per essere presenze sfuocate in un tempo senza tempo.

Improvvisamente qualcosa ha aperto i millimetri d’aria che ci separavano. Abbiamo capito che stavamo recitando una commedia dell’assurdo, un copione deviato, che nessun corpo si sarebbe mai nemmeno sfiorato.

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Scrivo queste cose come se fossero appunti.
Non ho progetti o programmi, ma seguo una traccia che il vento cancella.
Strizzo gli occhi per guardare meglio. Ho soltanto questi strumenti.

Il cielo sopra è grigio. Il mondo sotto è tonto.

Appoggio i piedi al suolo per credermi salva, per avere almeno una certezza.

Le gambe che mi sono state date, le gambe che mi saranno tolte.
Il volto, il volto che non m’appartiene.

Sono frammenti, sono capsule che vagano mentre il mondo è coperto da scarti e resti.
In questa molteplicità cerco una molteplicità meno espansa, un respiro diverso.

Respiro e ascolto più a fondo: anche questi frammenti troveranno una strada.