Lo scorso gennaio, al Teatro Sala Umberto in pieno centro di Roma è andato in scena Feste, uno degli spettacoli più recenti della Familie Flöz. La compagnia, con sede a Berlino ma di respiro internazionale, basa le sue produzioni su due caratteristiche essenziali che ormai ne costituiscono il marchio di fabbrica: l’assenza di dialoghi e l’uso di maschere realizzate ad hoc. 

In sé nulla di nuovo, verrebbe da dire, la tradizione del teatro non di parola è lunga, vale lo stesso per le maschere. A essere però inedito e a tratti perfino destabilizzante è il modo in cui silenzio e maschera diventano strumenti di racconto, dimostrandosi in grado di narrare l’infinitamente piccolo che alberga nell’animo umano. Se le radici del mimo, della clownerie e della commedia dell’arte sono ben individuabili, la rielaborazione di tali elementi si pone a servizio di una narrativa chiara – non ci sono sfide alle capacità di comprensione dello spettatore – e allo stesso tempo intima, mettendo in gioco emozioni e sentimenti profondi in cui è facilissimo specchiarsi.

Feste comincia nel bel mezzo di un party, anche se la scena ci mostra soltanto quello che accade all’esterno, nel cortile dei padroni di casa. Vediamo la loro figlia, una ragazza incline alla malinconia, che accetta la maldestra proposta di matrimonio da parte di uno degli invitati. C’è il ricco e borioso padre di lei che interrompe i due arrivando in elicottero. C’è anche, poco lontano da lì, una ragazza incinta, palesemente senza fissa dimora, che si accoccola su una panchina. Un passaggio di tempo ci fa poi entrare nel vivo dello spettacolo: il cortile è sempre lo stesso, ma stavolta assistiamo ai preparativi di un’altra festa, quella per l’imminente matrimonio della ragazza. È qui che incontriamo i buffissimi personaggi che animano quotidianamente l’abitazione: il portiere, la donna delle pulizie, il cuoco, il segretario del padrone, e soprattutto ritroviamo la ragazza incinta, il vero elemento trainante della storia, che si nasconde nella spazzatura pur di cercare un po’ di calore umano in quello strano ma umanissimo micromondo. 

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I personaggi non hanno un nome, semplicemente non ne hanno bisogno, dal momento che non è con le parole che si presentano. A renderli riconoscibili ci sono la maschera, sempre diversa, i costumi e soprattutto la postura, la gestualità, la

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