Il 14 agosto uscirà la terza stagione della fortunatissima serie televisiva The Bear, creata da Christopher Storer. Gianluigi Rossini e Sofia Torre ne discutono oggi parlando delle prime due stagioni. La settimana prossima si confronteranno sulla terza.

G.R.

Perché la seconda, acclamatissima, stagione di The Bear non mi ha convinto? Nella prima, come molti, avevo apprezzato il modo in cui veniva rappresentato il senso di ansia, di disastro imminente, associato sì al lavoro frenetico delle cucine ma condiviso da tanti lavoratori contemporanei, persino (o soprattutto) da quelli del settore culturale. 

Puntare sull’ansia è una scommessa rischiosa per una serie TV, ma la struttura di base su cui poggia The Bear è da manuale di scrittura seriale, è in pratica la stessa di ER: si prende un’arena drammatica ben delimitata – il pronto soccorso di un ospedale pubblico di Chicago, oppure la cucina di un locale di, uhm, Chicago –, se ne individuano i nodi drammatici e li si porta all’esasperazione, trasformando l’arena suddetta in una zona di guerra dove la posta in gioco è sempre la vita o la morte, effettiva o metaforica che sia. Il montaggio iperveloce e la corsa contro il tempo sono gli strumenti principali di questa rappresentazione. 

Nella seconda stagione, però, la reiterazione della struttura diventa meccanica, senza vita: i dieci episodi sono un macro-conto alla rovescia (l’apertura del ristorante) all’interno del quale si svolgono altri micro-conti alla rovescia (la prova del gas, i cinque minuti per completare gli ordini nel finale). Nel celebrato episodio natalizio fanno un effetto di pura maniera gli zoom improvvisi su un timer da cucina che suona di continuo, senza peraltro nessuna motivazione chiara: è un occhiolino dall’autore allo spettatore, comunica la volontà di creare uno spazio d’ansia ma non l’ansia stessa. Il critico James Poniewozik ha scritto sul New York Times che, se la prima stagione di The Bear era una storia di guerra, la seconda è una storia sportiva. Lo intendeva in senso positivo, ma cattura bene ciò che intendo dire: i montaggi iperveloci, nella seconda stagione, richiamano le sequenze di allenamento in cui vediamo i protagonisti fallire cento volte ma migliorare a poco a poco, e sappiamo già dove si va a parare. Arriverà lo scontro finale con la squadra avversaria e sarà vinto con gloria o perso con dignità, poco importa.

S. T.

Perché la seconda, acclamatissima, stagione di The Bear mi ha convinto? Perché solo la scelta di non limitarsi a rappresentare il senso di ansia e il disastro imminente può fornire un quadro più ampio e veritiero della vita nella ristorazione, che non è fatta solo di lavoro ma anche delle rinunce e degli strascichi ad essa connessi. Chi si interessa di cucina sente in The Bear l’eco delle parole dello chef Anthony Bourdain, per cui il brunch è il male assoluto, il problema dei ristoranti sono i dessert e bisogna sempre assaggiare il pane offerto dai locali che si visitano. La cucina è

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