Federico e Federica erano seduti ai seggiolini in fondo di un bus che andava non si sapeva dove. Sui vetri del bus c’era la notte e i due chiacchieravano con una ragazza che era lì, occhi azzurri e commossi, che sorrideva con molta grazia, seduta a braccia conserte come rannicchiata nel piccolo spazio che il mondo le aveva destinato; stava raccontando a Federico e Federica, fissandoli con sguardo felice, di aver recitato in un film qualche anno prima e di esser diventata, poi, miracolosamente famosa: era stata presa come attrice di strada da un regista veneto col pizzetto biondo che aveva svolto i casting nella sua zona, una landa campagnola fuori Padova.
Lei, che aveva sempre lavorato come donna delle pulizie, era capitata al provino per merito di una collega che ce l’aveva portata. Da lì tutto era andato per il verso giusto: provini, settimane di riprese, e immediati riscontri di pubblico e critica non appena il film era uscito, un successo, insomma, sia per il regista sia per lei come interprete di un personaggio secondario. Di inviti ai festival indipendenti e alle sale d’essai ne aveva collezionati a iosa, però non si era concessa a nessuno perché, punto primo, il suo volere, cioè recitare una parte, già si era compiuto, punto secondo perché era dovuta tornare ad occuparsi del marito e della casa.
Questa vicenda era parsa incredibile a Federico e Federica: erano estasiati di aver conosciuto un’attrice nota ai più, seppure il film non l’avessero visto; allo stesso tempo, però, suonava brutto a entrambi il fatto che lei, sull’onda di una carriera nascente, colta l’occasione per svoltare avesse invece rifiutato la fama per rincular alla sua vita precedente. Erano dovuti a questo, allora, la commozione dei suoi occhi, le braccia conserte e la postura striminzita, come se non potesse occupar un millimetro di più del seggiolino su cui sedeva?
Chiacchiera dopo chiacchiera, Federico e Federica avevan carpito dalle risposte vaghe della ragazza che il motivo di tutto ciò era il suo uomo: diceva di non volere e non poter vivere lontano da lui, lo descriveva sinteticamente ora abbassando lo sguardo e rannicchiandosi, ora sorridendo a tutto spiano. Un uomo di carattere pratico, diceva, così pratico che aveva costruito lui da solo la loro abitazione, una casetta al novantasei percento fatta in legno, super sostenibile; si occupava anche dell’orto, delle galline e via via.
Poi la ragazza aveva aggiunto che lui s’impegnava tanto anche nel prendersi sbronze quasi ogni sera: accennava a quella sua pratica etilica gesticolando e ricorrendo a termini come “evasione”, “sfogo” per un “uomo piegato dal lavoro”, quindi giustificato a bere. Era insomma il tipico orco burbero, malconcio, dal cervello agricolo, tumefatto dal vino e dalle grappe.
Nel trattar sottovoce l’argomento la ragazza era giunta vicinissima al pianto, lanciava occhiate perse per fare indietreggiare le lacrime.
Non sembrava tanto convinta, però, delle proprie opinioni. Nei momenti di silenzio inclinava la testa da una parte, puntava lo sguardo in basso, isolandosi, apparendo irraggiungibile per chiunque. Federico e Federica la osservavano poco convinti anche loro, senza capirci tanto; si trovavano di fronte una donna bella come poche, attrice acclamata, eppure così sdrucita nell’umore e nella personalità.
Sfumate le chiacchiere, Federico si era addormentato per una mezz’ora e non era successo nient’altro. Era notte e dai vetri del bus si vedeva poco anche a causa della nebbia, solo sparuti cartelli stradali, ogni tot qualche casa geometrile e qui e là semafori che lampeggiavano arancioni.
Un po’ di tempo dopo la ragazza si era rivolta a Federico e a Federica con una proposta: «Perché non vi fermate da me, stanotte?», sottolineando con la voce il “me”.
Federico e Federica si eran guardati con spaesamento e apertura. «Sarebbe carino» aveva risposto Federica.
Va precisato che Federico e Federica avevan entrambi ventisette anni e nessuno dei due sapeva cosa fare della propria vita; frequentavano disparati corsi e workshop, ad esempio Federica era iscritta a un master costosissimo sull’economia circolare, seguiva un laboratorio per diventar guida per camminatori sui monti, un altro per l’uncinetto e vestiva rigorosamente Quechua; Federico invece stava imparando il codice HTML, la drammaturgia, le tecniche per barman di primo livello e lo Yoga Nidra. Per entrambi non esisteva l’impiego fisso, ogni possibilità di vita era bella o bellissima, vivevano ispirati, però erano un po’ tonti e distratti.
Erano fatti uno per l’altra: tutti lo dicevano, amici, parenti, ex fidanzati e fidanzate. Convivevano nel seminterrato della nonna di Federica e non pagavano l’affitto, quindi destinavan i pochi soldi dei rispettivi conti correnti al tempo libero: camminate, biciclettate e arrampicate.
Il tono di me narratore, ci tengo a chiarire, è d’invidia verso la coppia, mai di derisione. Se c’è un giudizio, qui è positivo.
Ma come ogni coppia, è ovvio, avevan le loro scaramucce: stavan insieme da oltre quattro anni e già da un po’ si erano innescati i non detti, gli automatismi ispidi e le ripicche. Federica era la delicata della coppia, dedita all’ordine e alla pulizia del seminterrato; Federico era casinaro, lei lo riprendeva ogni tre per due, non muoveva un dito in casa, seppur gli sembrasse di prodigarsi tanto.

Il bus si era fermato in uno spiazzo illuminato da un unico lampione e i tre erano scesi. Federico e Federica con gli zaini in spalla, la ragazza con un foulard viola al collo. Aveva fatto loro strada fino a una Panda parcheggiata nel buio. Erano saliti, Federica davanti e Federico dietro, e la Panda era partita. Attorno era tutta campagna, la ragazza imboccava strade nebbiose e non asfaltate. Guidava veloce, frizionava.
In dieci minuti eran giunti a destinazione.
Era per davvero una casa di legno: una sorta di baita ma non in montagna, in pianura padana.
La ragazza li aveva invitati dentro con fare ospitale. Luci fioche tendenti all’arancione. Soffitto basso. Un divano a due posti, poltrona, tappeto rosso, questo era il salotto. Federico e Federica si eran accomodati sul divano, mani sulle cosce come due scolaretti; nel mentre la ragazza sistemava i loro zaini in un angolo, poi serviva loro un bicchiere d’acqua del rubinetto. Non c’era una stanza degli ospiti, avrebbero pernottato su quel divano; nell’informarli di ciò si era sfilata il foulard viola, poi si era seduta in poltrona, dove si era accesa una sigaretta marca Chesterfield.
Federico e Federica erano un po’ pentiti, però ancora aggrappati alla convinzione che viaggiare così, alla rinfusa, fosse più bello sia per il loro portafoglio, sia per spirito d’avventura. La rinuncia al comfort era per loro un vanto, perciò continuavan a sorridere indefessi, a gustarsi l’acqua del rubinetto con ostentato piacere e a sfiorarsi l’un l’altra coi gomiti, per sottolineare la loro unione anche nella disgrazia.
Inoltre, osservavano basiti la ragazza che, terminata la sigaretta, si era rannicchiata nella poltrona rimpicciolendosi anche qui come sul bus. Si udiva la lancetta dei secondi dell’orologio a muro scandire i silenzi.
A una certa, la ragazza s’era zittita del tutto; la testa reclinata, lo sguardo basso e plumbeo, quando la porta di casa si era spalancata come per un’aggressiva folata di vento, ed era entrato l’uomo.
Era spaventoso. Indossava scarpe antinfortunistica, una tuta da lavoro lercia e scolorita, e un cappellino beige che subito si era levato; sotto il cappello, la pelata. Sorrideva paonazzo. Dai suoi primi tre passi dentro casa, Federico e Federica avevan entrambi realizzato che era ubriaco. Barcollava, sbiascicava a tono alto. Si era presentato stringendo la mano prima a Federica, poi a Federico. La ragazza non la filava. Era quindi andato al frigo a stapparsi con l’accendino una birra Moretti.
Tutto di lui impensieriva Federico e Federica: la postura, l’andatura, come maneggiava gli oggetti della cucina, ma più di questo la faccia; pareva scolpita nel legno, la carnagione era marroncina e le rughe simili a venature. Sembrava una specie di Pinocchio.
Nel frattempo, la ragazza non aveva mai alzato lo sguardo, si studiava le mani ed esalava degli «Mmh» oppure dei «Uhm».
Poco dopo l’uomo era venuto a sapere, per bocca di Federico, che lei li aveva invitati a rimanere per la notte ed era svolato su tutte le furie: come aveva osato non chiedergli il permesso? La Moretti l’aveva scaraventata contro una parete, poi si era lanciato alla poltrona per acchiappar lei, che subito era saltata su per non buscarle. Si era messa a correre attorno al tavolo della cucina, inseguita da lui che la infamava con nomacci e bestemmie. La ragazza tratteneva le risa, mentre Federico e Federica eran prede del terrore più nero; si tenevano stretti per mano, adesso.
Finché l’uomo, in una pausa dettata dal recupero del fiato, si era voltato verso Federico e Federica urlando: «Fuori da questa casa!», al che i due se l’erano data a gambe.
Quella notte la ragazza aveva corso molto attorno al tavolo per far stancare l’uomo, ma poi verso l’alba un paio di schiaffoni se li era lasciati dare, altrimenti non sarebbero più andati a dormire. Lui, appena toccato il letto si era addormentato: un sonno profondo scandito da russate, rantoli e saracchi. Puzzolente di alcool e tutto sudato spalancava le fauci a ogni inspiro.
La ragazza, intanto, stesa al suo fianco con sguardo fisso al soffitto, si era posta una domanda inedita: com’era possibile che la casa di legno in cui vivevano non s’impregnasse d’acqua con la pioggia?
Di colpo, si era resa conto che non aveva mai piovuto sulla loro casa. Nei terreni attorno sì, pioveva anche spesso, soprattutto d’autunno e d’inverno. Sulla loro casa, mai. Come aveva potuto non accorgersene prima?
Di punto in bianco le era parsa tutta una farsa, la sua vita, compresa l’esperienza come attrice nel film del regista veneto.
Considerazioni del genere le tennero compagnia per l’intera notte, facendole smarrire il senso delle ore; era in uno stato di confusione.
Poi la mattina era venuta, e lei si era alzata cercando di non far rumore. L’uomo russava ancora.
Si era mossa furtivamente verso il bagno. Aveva aperto il mobiletto a lato dello specchio: dentro c’eran spazzolini, dentifrici, barattolini di psicofarmaci; spostando tutto di lato, aveva notato dei disegnini incisi lì, sul fondo di un ripiano. Non c’era voluto molto perché riconoscesse nelle linee storte lo stile rupestre e grossolano del suo uomo. Poi era passata a esaminare il disegno in sé: raffigurava una casetta con sopra un sole splendente, gigantesco, e le nuvole che scappavano ai lati con faccine impaurite.
Era giunta alla conclusione che quel disegno fosse una maledizione. Così, impugnata una lima per le unghie, aveva preso a scancellare il sole grattandolo via con foga.
Niente fu più come prima da quell’istante: sulla casa, di botto, venne il brutto tempo, una pioggia che torrenziale è dire poco. Il tetto s’inzuppò nel tempo record di tre minuti; la ragazza se la rideva a non finire, molto, molto più della sera prima, sghignazzava perdendo saliva ai lati della bocca.
Al che era uscita in giardino, senza ombrello, appena in tempo: la casa era crollata un secondo dopo, tipo castello di carte, riducendosi al suolo in una catasta di legno marcio. Immediatamente era spuntato dalle macerie l’uomo. Piangeva disperato: la sua faccia, pregna di pioggia e lacrime si era disunita e si dissolveva nei lineamenti, finché anche tutto il suo corpo si era disfatto e accatastato a terra in modo identico alla casa.
La ragazza, incredula, aveva sorriso al cielo come se tutto fosse logico e insieme fantastico. Era felice e contenta.

Adesso viene il difficile: convincere il lettore che tutto ciò che ha letto fin qui è in realtà un sogno.
Federico si era svegliato di soprassalto, ricordandosi ogni dettaglio e raccontando d’un fiato l’intera vicenda a Federica, seduta di fianco a lui su un Flixbus diretto a Rejka, Croazia. Federica l’aveva ascoltato fintamente stupita, lei non sognava quasi mai, quindi non dava peso alle stramberie inconsce di lui, gliele lasciava dire e basta. Federico, invece, preso dall’esibizionismo psichico, era eccitatissimo.
Terminato il racconto aveva chiesto a Federica: «Secondo te qual è il significato?».
«Come ti sentivi durante il sogno?» gli aveva chiesto lei.
«Come se mi dovessi debellare da qualcosa, per diventare libero».
Poi avevan lasciato cadere l’argomento: Federico aveva aperto Facebook per scrollare un po’, Federica s’era messa a leggere un mattone di Eston Ellis.
Provo io a dar un’interpretazione. Prima di tutto va chiarito che la domanda di Federica: «Come ti sentivi durante il sogno?» era una rimasticatura: una sua amica, tale Angela, seguita da uno psicanalista lacaniano le aveva spiegato che in terapia non si analizzano tanto gli eventi e le immagini dei sogni, bensì le sensazioni provate.
Detto questo, è vero che la libertà come tema, ogni tot, bussava ai pensieri di Federico: per via dei soldi, del lavoro, del tempo; si chiedeva: cos’è libertà e cosa no?
Il Flixbus era giunto a Rejka dopo altre quattro ore e Federico e Federica avevan speso la loro giornata nel sistemarsi fra ostello, una spesa veloce e un tuffo in mare al tramonto.
Vale la pena riportare questa scena: Federico, avvolto nell’asciugamano, si era isolato ad asciugarsi su uno scoglio, rannicchiato come la ragazza del sogno, e Federica, seduta tre o quattro scogli dietro, aveva percepito che per quanta unione ci fosse tra loro, quanta simbiosi, non avrebbe mai potuto acceder a quella sua solitudine; si manifestava di rado in lui, però quando si manifestava era esclusiva.
Si era chiesta se anche lei possedesse una solitudine simile, ma non se l’era trovata dentro.
I giorni successivi furono piacevoli. Fecero l’amore tutte le mattine; oltre a essere un’ottima pratica per l’umore e la digestione della colazione, scopare permetteva a Federico di dimenticar i sogni fatti, così che Federica non dovesse poi sorbirseli.
La loro permanenza a Rejka si srotolò nell’assoluta leggerezza e inconsapevolezza, ingredienti fondamentali per una vita debellata, lieta e libera; non troppo libera, però, perché il troppo stroppia.