1.

Quando esce il loro album di esordio gli Alphaville erano già famosi. Nel corso del 1984 avevano scalato le classifiche europee con i singoli Big in Japan Sounds Like a Melody finendo spesso in televisione a cantare in playback; il loro primo 33 giri, Forever Young, era distribuito da una major, la Warner, e conteneva dieci tracce tra cui la canzone che dava il nome all’album e che diventerà una hit mondiale. Usciva quarant’anni fa, il 27 settembre 1984.

Cantavano in inglese ma erano tedeschi: tedeschi occidentali. Venivano dalla provincia, Münster. Il cantante e paroliere, Hartwig Schierbaum, si faceva chiamare Marian Gold e aveva trent’anni, che all’epoca erano già tanti per una popstar. Figlio ribelle di un piccolo industriale, dopo il servizio militare aveva frequentato l’ambiente punk di Berlino Ovest vivendo nelle case occupate e dormendo sui treni della metropolitana. In Big in Japan raccontava per frammenti, sotto il velo dell’allusione e della metafora, la storia di una coppia di eroinomani che si prostituivano allo zoo di Berlino. Della parte musicale si occupava soprattutto Bernhard Lloyd, pseudonimo di Bernhard Gössling, che aveva sei anni meno di Gold, faceva il dj dilettante ma viveva ancora con i genitori, mentre il terzo membro del gruppo, Frank Sorgatz in arte Frank Mertens, era una presenza marginale. Abbandonerà gli Alphaville dopo l’uscita del primo album, fonderà una band minore dalla vita brevissima; poi userà i suoi diritti di autore per studiare economia e infine per trasferirsi a Parigi, iscriversi a una scuola d’arte e tornare in Germania, a Colonia, per fare l’artista plastico. 

A Münster gli Alphaville si mantengono con lavori temporanei in attesa che succeda qualcosa; nel frattempo frequentano un collettivo controculturale coltivando vaghi progetti creativi. Hanno gusti diversi (più eclettici e di nicchia quelli di Gold, più mainstream e synthpop quelli di Lloyd), ma entrambi stimano i Roxy Music, ammirano il Bowie dei tre dischi berlinesi (“conoscevo a memoria le sue canzoni e i suoi testi” dice Gold in un’intervista) e ascoltano attentamente i Kraftwerk (la copertina del loro secondo lp, Afternoons in Utopia, cita e omaggia la copertina di Trans-Europe Express). Non sono dei musicisti, anzi all’inizio non sanno proprio suonare, ma l’avvento dei sintetizzatori, delle batterie elettroniche e del synthpop (Lloyd apprezza gli Ultravox, gli Orchestral Manoeuvres in the Dark, Gary Numan, i Depeche Mode, i primi Simple Minds) li convince che anche loro possono provarci. Registrano un demo e lo mandano in giro alle case discografiche. Hanno delle pretese artistiche (all’inizio si chiamavano Forever Young, come il pezzo omonimo di Dylan e la canzone cui stavano lavorando fin dal 1982; poi si ribattezzano Alphaville, come il film di Godard, per darsi un nome colto) ma il produttore che per primo li nota, Colin Pearson, sta cercando un gruppo synthpop neoromantico e si interessa a loro perché rimane colpito dalla qualità melodica che intravede sotto gli arrangiamenti new wave. 

Nel passaggio dal demo al disco è Pearson a prevalere. Ciò accade grazie anche all’aiuto di un altro produttore, Andreas Budde, che ha l’idea di togliere, alla canzone che dava il nome all’album, la base ritmica che il pezzo aveva nel demo (una cosa molto interessante peraltro, che imitava Trans-Europe Express e anticipava i Prodigy di Smack My Bitch Up). Il risultato definitivo è una ballata orecchiabile e popolare, un capolavoro commerciale che molti, anche senza saperlo, hanno sentito almeno una volta nella vita, magari al bar o al supermercato. Come le grandi canzoni pop, e come le grandi arie d’opera per chi le ascolta ancora, Forever Young ha la forza di slatentizzare certe passioni semplici e ancestrali che altrimenti rimarrebbero pietrificate in noi senza trovare voce. È anche una di quelle piccole cose che, andando contro i miei gusti, smentendo l’idea di me che mi piacerebbe avere e facendomi leggermente vergognare, hanno il potere di commuovermi.

2.

La struttura è semplice: due strofe, un ponte, il ritornello ripetuti per due giri cambiando il testo delle strofe e del ponte. Tutti canticchiano il ritornello (Forever young, I want to be forever young. / Do you really want to live forever, forever, and ever?), non tutti capiscono quello che viene prima e dopo. Nel 1984 solo i parlanti nativi e i nordeuropei conoscevano l’inglese; gli altri per lo più lo ignoravano o lo decifravano a fatica. Gran parte della musica straniera circolava senza testo; la si ascoltava alla radio o in tv, su Videomusic, cercando di isolare alcune zone comprensibili in mezzo a un impasto vocale che restava puro suono. Procurarsi le parole non era facile: a volte si trovavano sulla copertina del 33 giri (più raramente su quella del 45), a volte anche sulla musicassetta ufficiale, quella non taroccata o duplicata dagli amici. Chi riusciva a leggere i testi aveva poi il problema di tradurli senza poter contare sugli strumenti di adesso, usando solo il vocabolario. Il fraintendimento era la norma. La stessa cosa si ripete oggi con gli ascoltatori che hanno meno di quarantacinque anni e sanno bene o benissimo l’inglese, possono trovare il testo in un attimo e farselo tradurre da internet, ma non conoscono il contesto. Leggendo i commenti pubblicati su YouTube sotto il video di Forever Young si incontrano gli stessi equivoci di quarant’anni fa: tutti si soffermano sul ritornello, pochi capiscono ciò che lo precede e lo segue, e infatti dedicano la canzone agli amici o ai figli morti giovani (Forever Young finisce spesso nelle colonne sonore dei funerali) o pubblicano pensieri sulla giovinezza e sul tempo perduto. La canzone parla anche di questo, come diremo, ma non solo. Comincia così:

Let’s dance in style, let’s dance for a while,
Heaven can wait, we’re only watching the skies
Hoping for the best, but expecting the worst,
Are you gonna drop the bomb or not?

Let us die young or let us live forever
We don’t have the power, but we never say never
Sitting in a sandpit, life is a short trip
The music’s for the sad men.

Can you imagine when this race is won?
Turn our golden faces into the sun,
Praising our leaders, we’re getting in tune
The music’s played by the, the madmen.

Balliamo con stile, balliamo per un po’,
il paradiso può attendere, noi guardiamo solo il cielo
sperando nel meglio ma aspettando il peggio,
sgancerete la bomba o no?

Lasciateci morire giovani o lasciateci vivere per sempre
non abbiamo il potere ma non diciamo mai “mai”
seduti in una buca di sabbia, la vita è un viaggio breve,
la musica è per i tristi.

Riesci a immaginare quando questa corsa sarà vinta?
Rivolgiamo i nostri volti dorati al sole,
lodando i nostri leader, ci stiamo mettendo in sintonia,
la musica è suonata dai pazzi.

Chi canta dice “noi” e parla a nome di una comunità di giovani sui quali incombe una minaccia. I giovani ballano e guardano i cieli sperando nel meglio ma aspettando il peggio, cioè che una seconda persona plurale, un “voi” che quasi sicuramente si riferisce ai leaders di cui si parla poco dopo, sganci la bomba. Tra il noi e il voi non c’è alcun rapporto: i giovani non hanno potere, i capi decidono della vita e della morte collettiva. Let us die young or let us live forever (dove Let us è grammaticalmente diverso dal Let’s del primo verso) significa “fateci morire giovani con la vostra guerra o lasciateci vivere per sempre”; sandpit evoca forse le trincee o i rifugi fatti con i sacchetti di sabbia, che in questo caso specifico non servirebbero a nulla, ma che appartengono all’immaginario bellico comune; metaforicamente heaven can wait vuol dire “la morte può attendere” proprio come il titolo del film che la canzone cita. I madmen sono i leaders del verso precedente, o comunque fanno parte di coloro che hanno il potere sganciare la bomba, e proprio per questo sono pazzi. La race di cui parla al v. 9 (Can you imagine when this race is won?) potrebbe essere la arms race, la corsa agli armamenti degli anni Ottanta (nei demo questo verso suonava più esplicito: Can you imagine how we won the war?), mentre il verso successivo, Turn our golden faces into the sun, può essere un’immagine generica oppure evocare l’unico sole compatibile con la situazione che il testo descrive, la bomba atomica. 

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3.

Mai come nel 1983 l’umanità è stata così vicina a una guerra nucleare: retrospettivamente la crisi di Cuba del 1962 sembra un episodio meno pericoloso di ciò che accadde, per lo più in segreto, negli ultimi quattro mesi del 1983. Il primo settembre del 1983 un aereo civile coreano in volo da New York a Seul smarrisce la rotta sul Mar del Giappone e sorvola per errore la Kamčatka, dove erano ormeggiati i sottomarini nucleari sovietici, e i sovietici, pensando che il 747 con la livrea delle Korean Air Lines potesse celare un aereo spia o un bombardiere, lo abbattono in volo senza avvertimento. Muoiono 269 persone tra cui 62 americani; Reagan va in televisione e tiene un discorso durissimo. Il 26 settembre (lo si saprà solo alla fine degli anni Novanta) un centro di controllo alla periferia di Mosca segnala il lancio di un missile nucleare da una base del Montana, ma l’ufficiale in comando, Stanislav Petrov, giudica impossibile che gli americani attacchino con un missile solo e fa spegnere l’allarme. Dopo qualche minuto l’allarme suona di nuovo: questa volta i missili sono cinque e Petrov ha pochi secondi per decidere se sollevare il telefono, avvertire l’ufficiale superiore e far partire la rappresaglia sovietica, tutto intorno suonano le sirene, il pannello luminoso davanti a lui è acceso e dice ATTACCO MISSILISTICO, ma anche in questo Petrov decide che gli americani non possono iniziare una guerra atomica lanciando solo cinque o sei missili e, sapendo bene che sarebbe potuto finire davanti alla corte marziale, non alza il telefono. Nel novembre del 1983 la Nato tenne la sua esercitazione annuale su suolo europeo (si chiamava Able Archer 83) nella quale si simulava un’escalation militare terrestre che culminava in una guerra. Quell’anno furono introdotti dei tratti di realismo (la partecipazione vera di alcuni capi di Stato, il silenzio radio) che fecero credere a una parte dei servizi segreti sovietici che Able Archer non fosse solo un’esercitazione; e così, mentre la Nato manovrava per finta, il Patto di Varsavia mobilitò le sue truppe vere di stanza in Germania Est, mise in stato di allerta le basi missilistiche sovietiche e fece alzare in volo i bombardieri. Quando gli apparati occidentali se ne accorsero, Able Archer fu interrotta con un giorno di anticipo. 

Sette anni prima di Forever Young, nel 1977, i sovietici avevano deciso di sostituire i loro vecchi missili europei di corto raggio con i nuovi SS20, molto più accurati, capaci di portare tre testate ciascuno e con una gittata che copriva tutta l’Europa occidentale. Due anni dopo la Nato rispose installando in Germania Ovest, Italia, Belgio, Olanda e Gran Bretagna i missili Pershing che potevano raggiungere Mosca e Leningrado in meno di otto minuti. Nel 1980 Carter reagì all’invasione sovietica dell’Afghanistan boicottando le Olimpiadi di Mosca; nel 1981 Reagan diede avvio a una politica di riarmo che i sovietici interpretarono come un atto ostile. Nel novembre del 1982 muore Breznev, che non era né un folle né un estremista, e gli succede Andropov, che per quindici anni era stato il capo del Kgb e conservava la mentalità paranoica delle spie. Dall’altra parte, alcuni militari americani e alcuni funzionari dell’amministrazione Reagan formatisi negli anni Cinquanta continuavano a credere, magari senza dirselo, che una guerra contro l’Unione Sovietica fosse una scelta possibile e che gli Stati Uniti potessero vincerla usando armi convenzionali, forse qualche arma atomica, ma riportando perdite accettabili. Nel suo primo mandato Reagan aveva un modo di fare ostile e usava toni provocatori. Il discorso più pericoloso lo tenne l’8 marzo 1983 davanti all’Associazione nazionale degli Evangelici: nel mondo esistono il peccato e il male, disse, e l’Urss è l’Impero del Male, e gli Stati Uniti hanno ricevuto da Gesù e dalle Scritture il comando di combatterlo with all our might, con tutta la nostra forza, fino alla distruzione del nemico. Due settimane dopo presentò un progetto di difesa antimissile che sparigliava gli equilibri della deterrenza nucleare. Nel maggio del 1984 i sovietici, ufficialmente preoccupati per i sentimenti anticomunisti che circolavano nell’opinione pubblica americana, boicottarono le Olimpiadi di Los Angeles così come gli americani avevano boicottato quelle di Mosca nel 1980; nel settembre del 1984, quando esce Forever Young, le testate nucleari attive erano circa sessantamila.

Oggi è difficile spiegarlo bene ma in quegli anni la vita, o almeno la vita di chi aveva tempo e sensibilità per queste cose, si svolgeva su tre piani. Il primo, prossimo e apparentemente reale, era l’esperienza quotidiana: avere dieci anni e vivere ancora nel mondo strutturato dai genitori; averne tredici e ritrovarsi nelle tempeste delle scuole medie, dentro un corpo diventato incontrollabile, tra la brutalità dei ripetenti e le coetanee che si sessualizzavano precocemente; averne sedici e trovarsi al liceo a costruire la propria maschera e lottare per il proprio posto nelle prime gerarchie adulte. C’era poi il grande mutamento domestico dei costumi e della politica, il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, dagli scontri di piazza alla televisione commerciale, dall’impegno diffuso allo spettacolo diffuso; un mutamento che non avremmo saputo interpretare ma che era impossibile non cogliere e non capire che avrebbe modellato la nostra vita adulta. E infine c’era un piano più grande, astratto e terribile, che incombeva anche se non faceva parte dei pensieri prossimi. Forever Young lo compendia nel verso We’re only watching the skies. Guardavamo i cieli perché da un momento all’altro avremmo potuto vedere le scie dei missili e sapere che dieci minuti dopo sarebbero arrivati gli SS20. (Era improbabile che Firenze fosse sulla lista dei primi bersagli sovietici; sicuramente lo era la base americana di Camp Darby, a settanta chilometri in linea d’aria dalla periferia dove abitavo. Sarei morto nei giorni successivi per la nube radioattiva insieme ai miei genitori, avrei avuto il tempo di capire, sarebbe stato orrendo.) Lo consideravamo improbabile e inconcepibile, ma sapevamo che sarebbe potuto accadere. Immagino che gli adulti se ne preoccupassero molto meno di quanto me ne preoccupassi io, perché avevano un mondo pieno di impegni, di cose reali e urgenti da fare, mentre io ero nel moratorium dell’adolescenza e potevo permettermi di cazzeggiare e di pensarci, e ci pensavo spesso. Ma non ero il solo.

La prima canzone che ho provato a ballare in una festa delle medie è Enola Gay degli Orchestral Manoeuvres in the Dark, che è rimasta in cima alle classifiche per mesi tra il 1980 e il 1981. Tipica canzone new wave: musica ballabile e testo disforico cantato con tono neutro, un po’ come Love Will Tear Us Apart dei Joy Division, che esce nello stesso periodo, con la differenza che i Joy Division parlavano di un amore finito e gli OMD dell’aereo che ha sganciato la bomba su Hiroshima, e che si chiamava Enola Gay. (In terza media non sapevamo né che Love Will Tear Us Apart era popolare perché Ian Curtis si era appena suicidato né chi fossero Ian Curtis o Enola Gay; ma mentre era facile intuire che Love Will Tear Us Apart parlava di amore, tutti pensavamo che quella degli OMD fosse una canzone sull’unica parola che si capiva, una canzone sui gay). Nel 1981 gli Heaven 17 pubblicano Let’s All Make a Bomb (“There’s no need to debate / It’s time to designate your fate / Take the M out of MAD / Let’s all make a bomb”), mentre Prince fa uscire Ronnie, Talk to Russia, dove si rivolge direttamente a Reagan e gli dice di parlare con i russi prima che sia troppo tardi. Nel 1983 The Final Cut, l’ultimo disco dei Pink Floyd veri, si conclude con una canzone intitolata Two Suns in the Sunset nella quale il secondo sole al tramonto è quello atomico, e sempre nello stesso anno Nena pubblica 99 Luftballons, con un video che allude esplicitamente a una guerra nucleare, mentre d’estate i Righeira riempiono le piste con Vamos a la playa (“la bomba estalló / las radiaciones tostan / y matizan de azul”), una canzone che ha una storia molto simile a quella di Forever Young, con un demo new wave, nel quale si sente l’influenza chiarissima di Showroom Dummies dei Kraftwerk, che viene poi addolcito e trasformato in una hit commerciale italodisco. Nel 1984 escono almeno altre quattro canzoni popolari, da parte alta della classifica, che parlano di guerra atomica: Two Tribes dei Frankie Goes To Hollywood, My Ever Changing Moods degli Style Council e Hammer to Fall dei Queen, mentre gli Ultravox, che già nel 1977 avevano fatto uscire Hiroshima Mon Amour, pubblicano Dancing with Tears in My Eyes, dove chi dice io balla con le lacrime agli occhi mentre aspetta l’arrivo dei missili (nel video, forse per non angosciare troppo il pubblico, la guerra atomica fu trasformata in un incidente a una centrale nucleare, cinque anni dopo Three Mile Island, due anni prima di Chernobyl); e sempre nel 1984 Afrika Bambaataa e John Lydon (cioè Johnny Rotten, l’ex cantante dei Sex Pistols) pubblicano World Destruction. Ma il tema era ovunque: The Unforgettable Fire degli U2, per dire, prendeva il titolo da una mostra dedicata alle opere d’arte prodotte dai sopravvissuti di Hiroshima. Di esempi simili la musica pop di quegli anni è piena. Le sfumature e i dettagli li capivano solo gli anglofoni, ma l’atmosfera generale e i video erano espliciti e chiarissimi. 

Nel novembre del 1983 negli Stati Uniti l’Abc trasmette The Day After, un film per la televisione che racconta la guerra nucleare e che viene visto da quasi cento milioni di spettatori, un primato per i film messi in onda dalle tv americane che resiste ancora oggi e ha qualcosa di irreale se si considera che gli americani all’epoca erano 234 milioni. L’opinione pubblica ne fu sconvolta, così come Reagan, che ne parlò nel suo diario. Per la prima volta l’Abc giudicò inopportuno inserire la pubblicità nella parte finale di un film, quella in cui partono i missili intercontinentali. In Italia The Day After venne distribuito al cinema nel febbraio del 1984 e dalla Rai in prima serata nel novembre dello stesso anno. Io lo vidi in una sala di Firenze che oggi non esiste più, nel primo spettacolo pomeridiano semivuoto a metà della settimana. Conservo ancora l’impressione fisica del luogo e della mia mano sul bracciolo mentre sullo schermo scorre la scena nella quale una signora del Kansas profondo vede uscire i missili dai silos e continua a rifare il letto con gesti che diventano sempre più rigidi. Si difende col diniego, come ho sempre fatto anch’io, nel mio piccolo, davanti alle cose insostenibili, e poi, quando il marito cerca di scuoterla e di portarla nel rifugio, si mette a urlare con un abbandono assoluto e senza pudore, e proprio per questo spaventoso. Uscendo dalla profondità della sala e ritrovando il mondo delle persone ancora vive nella luce tardopomeridiana, gli esseri policromi che lasciavano gli uffici con i vestiti color pastello degli anni Ottanta e che riempivano le strade con i loro motorini mi sembravano lo strato apparente di una realtà invisibile e più seria di cui noi eravamo solo la schiuma.

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4.

A questo punto arriva il ritornello, che tutti credono di capire ma che in realtà è molto più ambiguo di come sembra:

Forever young, I want to be forever young.
Do you really want to live forever, forever and ever?

Significa molte cose e la più semplice è il desiderio di rimanere giovani per sempre. E tuttavia il primo verso è seguito da un’interrogativa (Do you really want to live forever, forever and ever?) che potrebbe essere solo una domanda retorica ma potrebbe anche avere un valore semantico. Se si considera il contenuto della prima strofa, coloro che rimangono forever young sono i morti della guerra atomica; se si guarda ciò che il testo dice nelle strofe successive quando si parla di vecchiaia, la domanda può voler dire “Sei proprio sicuro di voler vivere per sempre? Sei proprio sicuro di voler invecchiare?”. Questo intreccio di significati fa nascere le due interpretazioni di Forever Young che ricorrono più spesso nei commenti di YouTube e che la leggono come un’elegia per la giovinezza perduta o per tutti i morti giovani: interpretazioni parziali, certo, ma non sbagliate, perché la vita postuma dell’arte non è fatta di filologia e perché Forever Young non è una costruzione geometrica ma un patchwork, come dice Gold in un’intervista, un conglomerato messo insieme da un paroliere che doveva trovare la rima e far tornare il verso, per giunta in una lingua straniera.

Subito dopo il primo ritornello entra una batteria scontatissima, e poi arriva la seconda parte della canzone:

Some are like water, some are like the heat
Some are a melody and some are the beat
Sooner or later they all will be gone
Why don’t they stay young?

It’s so hard to get old without a cause
I don’t want to perish like a fading horse
Youth’s like diamonds in the sun,
And diamonds are forever

So many adventures given up today,
So many songs we forgot to play.
So many dreams swinging out of the blue
Oh, let them come true.

Alcuni sono come l’acqua, altri sono come il calore,
alcuni sono una melodia e altri sono il ritmo,
prima o poi se ne andranno tutti,
perché non rimangono giovani?

È così difficile invecchiare senza una causa,
non voglio morire come un cavallo che scompare,
la gioventù è come i diamanti al sole,
e i diamanti sono per sempre.

Tante avventure cui oggi abbiamo rinunciato,
tante canzoni che abbiamo dimenticato di suonare,
tanti sogni che escono fuori all’improvviso,
Oh, lascia che si avverino.

Qui incontriamo due topoi, mi pare: uno, politico, è l’esaltazione delle differenze, fondamento morale della controcultura ma anche delle società liberali; l’altro è un implicito ubi sunt, un memento mori elencatorio (quelli che assomigliano all’acqua e quelli che assomigliano al fuoco, quelli che assomigliano alla melodia e quelli che assomigliano al ritmo spariranno tutti comunque). In questa parte ciò che minaccia i giovani è la condizione umana, non l’apocalisse atomica. It’s so hard to get old without a cause introduce per la prima volta l’ipotesi che i giovani possano sfuggire alla guerra e invecchiare; subito dopo si dice che non si vuole morire di vecchiaia perché il vecchio è come un cavallo che scompare mentre la gioventù è come i diamanti, e i diamanti sono per sempre. La domanda che precede, Why don’t they stay young?, può allora significare “Non è forse evitare l’ingiuria del tempo?”, come se Gold stesse cercando di dirci, con i suoi mezzi, che muore giovane colui che al cielo è caro, come nella citazione di Menandro che Leopardi mise in epigrafe a Amore e morte. Infine la parte finale introduce il tema del rimpianto per tutto ciò che poteva essere e non è stato e si conclude con un’ottativa (let them come true) che esprime una speranza. Poi arriva il secondo ritornello e la canzone si avvia alla sua chiusa strumentale.

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5. 

La guerra atomica, il valore della gioventù, il tempo che passa: tutti fili che fanno parte del testo e che vengono messi insieme senza creare una trama, anzi generando le ambiguità che hanno fatto la fortuna di Forever Young. C’è un tema politico e un tema esistenziale. Il primo è molto interessante per la visione del mondo che esprime e per la lucidità con cui coglie una condizione storica. Le persone comuni e la grande politica appartengono a due sfere della realtà nettamente separate: ai più interessa la vita così com’è, le avventure, le canzoni e i sogni di cui parla prima dell’ultimo ritornello, non una causa collettiva da difendere fino alla morte. Il tratto di fondo della Guerra fredda così come si configurava nei primi anni Ottanta è proprio la distanza invalicabile tra lo scontro ideologico apocalittico che sfugge al controllo delle masse e la vita quotidiana. The Day After la coglieva splendidamente: ognuno fa le sue cose mentre le televisioni raccontano una crisi regionale che si aggrava a poco a poco; tutti ascoltano le notizie ma in sostanza continuano a vivere come prima, fino a quando non vengono sorpresi dalle scie dei missili intercontinentali mentre lavorano, guardano la partita o preparano i rinfreschi per la figlia che si sposa il giorno dopo. In una guerra convenzionale questa distanza non c’è: i giovani maschi vengono mobilitati, le loro famiglie ne sono sconvolte, l’economia cambia in funzione della guerra, la progressione degli eventi avviluppa tutto. Allo stesso modo, e a maggior ragione, una guerra civile o una rivoluzione entra di prepotenza nella vita ordinaria e la travolge. All’inizio degli anni Ottanta comincia a venir meno il rapporto tipicamente moderno tra grande politica e vita collettiva, quello che, secondo Lukács, si fissa con le guerre napoleoniche, quando la storia diventa un’esperienza vissuta dalle masse. Con le armi nucleari e la mutua distruzione assicurata, la storia si avvia a non esser più un’esperienza collettiva se non nella forma dell’impotenza e della paura. Non solo: in Europa occidentale nei primi anni Ottanta l’impegno politico scompare rapidamente; in pochissimo tempo i cuscinetti ideologici che attutivano il rapporto tra il quotidiano e la grande guerra di religione che si svolgeva tutto intorno si sgonfiano; il disincanto, il cinismo, l’edonismo e l’ironia diventano i modi più comuni di stare al mondo e il pericolo che incombe viene o rimosso o esorcizzato, come quando i Righeira, in Vamos a la playa, trasformano l’apocalisse in un riempipista estivo. (“Esplode la bomba, ma che ce ne frega, andiamo in spiaggia, andiamo avanti lo stesso, vuol dire che diventeremo blu invece che marroni” diceva Johnson Righeira in un’intervista). L’elegia politica di Forever Young e il “che ce ne frega” di Vamos a la playa sono atteggiamenti complementari che divergono solo per una differenza di temperamento. Di lì a poco la grande guerra ideologica novecentesca sarebbe finita come sappiamo. Ciò che invece non è finito è il sentimento di distacco tra noi e voi: anzi, in un contesto totalmente diverso e con altri modi è diventato la cifra della politica dopo il 1989, prima nella forma del disimpegno assoluto, poi del risentimento populista fondato sull’antitesi tra le élites e “la gente”.

In Forever Young c’è poi un altro verso politicamente decisivo, It’s so hard to get old without a cause. Potremmo anche pensare che qui Gold abbia voluto dire “non c’è una ragione per invecchiare”, “l’invecchiamento è una crudeltà senza motivo”, ma mi pare improbabile. Secondo me, qui cause significa “causa politica”, “ragione ideale”. Difficile invecchiare senza credere in qualcosa che non sia il puro privato. È una frase da artista adolescente (la maggior parte degli adulti vive tranquillamente senza una grande ragione ideale, si riempie la vita curando interessi e coltivando affetti personali e non percepisce alcun vuoto); ed è la frase di chi ancora attribuisce un valore supremo alla politica ma non ha più una causa cui votarsi, perché è un’anima bella, anarcoide e ineffettuale, che odia il socialismo reale ma non può amare il capitalismo. It’s so hard to get old without a cause pare confliggere peraltro con lo spirito degli ultimi versi dove la vita fatta di avventure, canzoni e sogni sembra bastare a se stessa, tanto che diventa oggetto di rimpianto, senza bisogno di qualcosa che la redima. Ora, in quegli anni aver bisogno di una ragione politica per vivere bene significava conservare una scintilla di utopia, non nelle forme del socialismo reale, che la cultura pop e il suo ethos giovanile antiautoritario hanno sempre avversato (and the shame was on the other side, “e la vergogna era dall’altra parte [del Muro di Berlino]”, cantava Bowie nel 1977 in Heroes, che Gold sapeva a memoria;  due anni dopo esce Go West dei Village People), ma nelle forme di una speranza vaga, quella che di lì a qualche anno si sarebbe raccolta attorno allo slogan “un altro mondo è possibile”, mentre accettare la vita così com’è vuol dire apprezzare lo stato di cose presente che, per chi scriveva stando da questa parte del Muro, significava, e significa, la Western way of life.

6.

Ora che la guerra atomica, pur essendo un rischio reale, non fa parte del discorso pubblico se non marginalmente, l’elemento politico di Forever Young è diventato invisibile ai più. In realtà lo è diventato abbastanza presto: di sicuro dopo il 1989, forse già dopo il marzo del 1985, quando Gorbačëv diventa segretario del Pcus, sicuramente dopo il vertice di Reykjavík dell’ottobre 1986 col quale comincia la fase matura della distensione tra Est e Ovest; e questo mentre la musica pop continuava a parlare di guerra atomica. Russians (1985) di Sting, Back to Zero (1986) dei Rolling Stones, No Nuclear War (1987) di Peter Tosh, Everyday Is Like Sunday (1988) di Morrissey escono quando il sentire comune è già cambiato. 

Oggi Forever Young significa altro. Su YouTube c’è il video di un’esibizione degli Alphaville a Mosca di qualche anno fa. Della vecchia formazione è rimasto solo Marian Gold; nel frattempo Forever Young è diventata popolarissima nei paesi che facevano parte del Patto di Varsavia. Gonfio, i capelli di un nero irrealistico, Gold canta in playback davanti a una platea composta di suoi coetanei e di miei. Sono ancora tutti vivi: i missili occidentali puntati su Mosca non sono mai partiti, gli SS20 sono stati smantellati. E tuttavia la morte è in mezzo a loro, nei corpi ondeggiano disfatti, mentre le tinture delle russe hanno preso quel colore ossidato e involontariamente punk che ogni tanto vedo sui capelli di mia madre; e ora tutti cantano di voler essere giovani per sempre, con una felicità precaria e una purezza commovente, in quei quattro magici minuti durante i quali il passato risorge, perché nessun biscotto, nessun acciottolato sconnesso trasporta la memoria involontaria meglio delle canzoni che abbiamo ascoltato da ragazzi, e i dieci milioni che un mese fa hanno provato a comprare un biglietto per gli Oasis non rivolevano gli Oasis ma un frammento del loro bene più prezioso, il tempo perduto. Marian Gold invece è costretto ad avere trent’anni per sempre. Esiste ancora ma è come se fosse stato vivo solo per pochi mesi quando le tre canzoni del 1984 erano ancora fresche; di tutto quello che ha fatto prima e dopo non importa nulla a nessuno. C’è una malinconia profonda nelle popstar che ripetono anno dopo anno gli stessi pezzi di una volta dovendo ricreare, con una vita e un corpo diverso, ciò che sono state a venti o a trent’anni, di fronte a un pubblico che viene a vederle per riavere indietro un passato che non esiste più. Questo bisogno di ritornare giovani, qualunque cosa ne sia stato di noi, è un grande archetipo morale: nasce dalla consapevolezza che nessuno alla fine potrà scampare alla sua guerra personale, quella che la natura ha iscritto nel corpo deperibile di ciascuno, ma è anche il segno che nel grande conflitto metafisico tra la potenza e l’atto, e tra il desiderio e la realtà, è sempre la prima parte a prevalere. Essere giovani significa avere il tempo davanti e contemplare l’infinito, disporre per intero di quel futuro illimitato che oggi è per noi l’equivalente di ciò che per i cristiani era la vita eterna. Rispetto a ciò che avrebbe potuto essere e non è stata, ogni vita è sempre un fallimento; i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto.