Nel parco condominiale crepitano i rami secchi.
L’aria è cristallo, i vecchi scorticano gli alberi
nudi con ira limpida,
i bambini s’arrampicano in marcia
sugli scivoli, si scindono ordinati in schiere.
Tutto è una cruda parodia marziale.

Vedi: qui si rintana l’ultimo rigore.
Nipoti che non sanno cosa è il gioco,
e la pelle degli estremi testimoni
che si sfrega ai muschi viola
senza produrre fuoco.
Intanto il piscio, il pianto, le acque rotte
nella paura folle
dai prigionieri prossimi al plotone,
l’implorazione vile che a fare dell’uomo
un animale buono valse più del capo
stoicamente levato sulla Storia –
anche questo coagula nel molle
oscillare delle flebo,
nei pii lavacri di rumene esperte
(la domenica, dalle stesse panche,
confabulano assieme alle compagne
emettendo giudizi imperscrutabili).

Il tempo passa rapido ed inerte.
Dietro le imposte altri corpi straziabili
tra le fibre sintetiche si torcono,
e schiere di infermieri (così fu per Manzoni)
a stento ne contrastano la forza
invereconda, con goffi calci e pugni li costringono
a restare sul ring dell’agonia.

Ma non un grido giunge nel giardino.
Qui i vecchi seccano senza mutare,
i bimbi sono muti. Nella via
è una canzone estiva a raccontare.
La città intorno occhieggia sana immemore,
intatta anche nei segni che non parlano
più, ogni dettaglio fedelmente imbalsamato:
perfino i ciocchi potati delle piante
di cui nessuno sa il nome e che nessuno
getterà nel camino
per proteggersi da inverni troppo miti.
Il negativo della pienezza è già pienezza
in questo prato che sembra una tua pagina
assurda per troppa chiarezza. Sì, non poter
bruciare: era questo il tuo significato.