Nel 2008, dopo la morte di mio padre, mi misi a riordinare le immagini di lui rimaste nei cassetti della casa dove vivevano i miei genitori e dove io ero cresciuto, e le portai a riprodurre, come si fa in questi casi. Poi mi misi a cercare anche le foto della sua famiglia e ne trovai pochissime: qualche immagine dei miei nonni, che avevo conosciuto più o meno bene, nessuna dei miei bisnonni, che erano morti prima che io nascessi, e dei quali non ho mai visto i volti. Domandai a mia madre e lei mi raccontò che nel 1974, durante l’ultimo grande trasloco, mio nonno paterno, che viveva a casa nostra, aveva buttato via quasi tutte le poche foto che possedeva. Quando lei gli chiese perché, lui rispose: «Tutta roba vecchia, tutta gente morta».

Nel gesto di gettare via le foto della gente morta c’è un giudizio – un giudizio sul valore della vita di quelli come lui, nati mezzadri pochi decenni prima che il mondo contadino tramontasse, e diventati, nel secondo dopoguerra, operai, carpentieri, muratori, ambulanti, ortolani, vinai; persone di fatica il cui scopo (ma la parola “scopo” è imprecisa perché presuppone un elemento di volontà che in quel mondo mancava) era lavorare per vivere decorosamente, e permettere ai figli di star meglio dei genitori, come avevano cercato di fare, per secoli, le generazioni immemorabili che lo avevano preceduto. Tutto il resto non esisteva o non faceva per lui, e non c’è forma di interdetto sociale più feroce di quella custodita nella frase «Non fa per me».

Non si considerava degno di essere rappresentato. Immagino che si sia lasciato fotografare con un certo imbarazzo. Chi ha la mia età si ricorda ancora bene l’epoca nella quale le persone si facevano fotografare con imbarazzo, e non perché l’immagine interiore di sé non corrispondeva all’immagine esteriore, come succede oggi con i selfie, ma per timidezza, perché la fotografia era troppo, era troppo per loro. Mio nonno non si considerava degno di ritornare presente (rappresentare vuol dire questo: “riportare alla presenza”) se non dopo la morte, in un altro mondo nel quale però non ha mai creduto davvero, se non da vecchio, forse.

Trent’anni dopo che le foto della sua famiglia furono disperse, a mio padre venne diagnosticata una malattia. Fu operato, sopravvisse alla radioterapia, sopravvisse alla chemioterapia, ebbe ancora qualche anno di relativa tranquillità. Dopo la fine della convalescenza, lui e mia madre si concessero due cose che fino a quel momento si erano concessi poco: viaggiarono e scattarono foto, e non solo ai monumenti o ai paesaggi, come avevano per lo più fatto fino a allora. L’immagine che tre anni dopo mia madre scelse di mettere sulla tomba di mio padre risale a quel periodo.

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