Capita che il cinema tratti la fotografia in modo funzionale alla trama. Come viene narrata in questi casi? Che significato assume? 

Se dovessi esprimere un desiderio, sarebbe quello di vedere l’immagine che viene scattata a Bill Murray nel celebre film di Sofia Coppola Lost in Translation. Verso il finale, Bill Murray (Bob Harris nel film) viene coinvolto in una foto di gruppo. Bob ha appena salutato Charlotte (Scarlett Johansson) – la ragazza con la quale, durante la strana e alienata permanenza a Tokyo, era riuscito a instaurare un legame di affetto profondo –, e continua a seguirla con lo sguardo non prestando alcuna attenzione all’obiettivo. Se dovessimo ricomporre con la mente quell’immagine, vedremmo così cinque o sei persone sorridenti e con gli occhi rivolti in camera, e Bob, tutto sulla destra, con gli occhi girati, in fuga da quella situazione forzata, che ancora insegue Charlotte mentre prende l’ascensore per tornare nella propria camera. Perché è importante questa scena? Perché si ripete due volte di seguito, innanzitutto. Per due volte, infatti, vediamo partire il flash della macchinetta compatta, e per due volte Bob ha lo sguardo altrove, sempre incollato a Charlotte. In secondo luogo, perché così Sofia Coppola trova il modo per dirci quanto labile sia la presenza di un soggetto dentro un’immagine fotografica, quanto poco basti per portarlo via. E, ancora, quanto l’effettiva presenza di un soggetto venga comunicata quasi totalmente dalla direzione dello sguardo, dal suo  coinvolgimento nell’attimo in cui è chiamato a comparire. 

La Coppola, in questa brevissima scena, ha racchiuso tutta l’indubbia fallibilità della fotografia: il fatto che per comprimere davvero un’esistenza dentro la sua cornice ci si debba affidare totalmente alla volontà di chi dovrà essere immortalato, al suo essere davvero presente in quel momento. 

Non era la prima volta che il cinema usava questa “fuga degli occhi” per raccontare qualcosa che si estende al di là di una fotografia. Anche in Blow-Up di Antonioni,

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