Era una sera d’inverno sul finire degli anni Ottanta, quando vidi per caso su Italia 7 il film Un amore in prima classe di Salvatore Samperi, regista che conoscevo per uno dei miei film preferiti, Sturmtruppen. Il film in questione era tutto ambientato dentro un treno in corsa e vedeva Carmelo, un ragazzo padre interpretato da un Montesano baffodotato, in viaggio con l’irrequieto figlio Malcom, una rottura di coglioni di bambino, credo, mai vista al cinema a questi livelli. Nel loro vagone, i due incontrano una giovane paleontologa, una bellissima Sylvia Kristel, la Emmanuelle dell’omonima saga, che avrà una liaison col protagonista. Una commedia venata di libidine, ma in realtà una commedia solo in teoria, come spesso è per Samperi, perché nel doppiofondo di ogni risata c’era in realtà un groppo in gola. Mi colpiva come la tenerezza di Montesano per suo figlio si mescolasse a un sottile odio per lo stesso, molto realistico, raggelante e insieme toccante nella sua cruda umanità. Era un film stracolmo di personaggi: c’erano anche Franca Valeri, Felice Andreasi, Sergio Di Pinto e Memmo Carotenuto. Ma mi fissai su uno in particolare, il capotreno, che era un tipo segaligno, coi baffi neri, logorroico, entrante e istrionico, con una voce squillante e che faceva ragionamenti tutti suoi, per niente al servizio del film, così magnetico da mettere in ombra anche il protagonista. Io avrei voluto un film tutto su di lui invece che un pugno di scene. Avrei voluto fosse stato lui a far breccia nel cuore della Kristel. Su quel volto mi fissai. Volevo sapere chi era, come si chiamava, ma era impossibile. Fino a che non lo rividi per caso, solo meno segaligno e più composto, in una puntata della serie tv Colletti Bianchi. Non conoscendone il nome, non sapevo che fosse anche lo sceneggiatore di quel telefilm, guarda un po’, spettacolare, come tante produzioni Fininvest di quegli anni (Don Tonino su tutte).
Ma la sorpresa fu ancora più grande quando lo riconobbi in una immaginetta su «Telesette». C’era un film su di lui in programmazione, Kamikaze. E dalla sinossi pareva proprio il film che sognavo: quello con lui assoluto protagonista! La pellicola era diretta da Bruno Corbucci e prodotta da Lino Banfi. La storia vedeva il timido impiegato di un mobilificio, il ragionier Artioli, inviato dal suo direttore all’aeroporto per ricevere una giovane donna di colore, da assumere come colf. Quello che sembra un banale incarico, si trasforma in una pericolosa avventura. La donna infatti è una principessa inseguita dai servizi segreti. Il povero ragioniere affronterà killer, agenti segreti e guerriglieri africani. Una commedia d’azione sullo stile di All’Inseguimento della Pietra Verde, con una coprotagonista (Melonee Rodgers) che dire “bona” era dire poco. Mi sintonizzai all’ora giusta davanti alla tv e lo vidi con un’attenzione degna di quando all’Allegro Chirurgo dovevi estrarre la cesta per il pane: non avendo il videoregistratore, sapevo che sarebbe stata la mia unica visione. Non deluse le aspettative. Fu un one man show di un’ora e mezzo d’un personaggio che – ma fu una conferma – avrei voluto troppo conoscere e diventarci amico. Di lui e del merlo Schopenhauer che si portava dietro. Su «Telesette» in compenso scoprii il suo nome: Gianfranco Manfredi.

Qualche anno dopo, in piena passione bonelliana, mi cadde l’occhio in edicola su un fumetto non bonelliano ma di uguale formato e foliazione, tale «Gordon Link», edito dalla Dardo.
L’albo che acquistai era il numero due, Balla con gli scheletri. Mi ero perso il primo, che recuperai due anni dopo a Milano Marittima, in una busta convenienza all’edicola dell’VIII Traversa, tanto che pareva fosse venuto a cercarmi lui. Ricordo che lessi quel numero d’esordio sulla panchina in pietra sotto l’abete del mio giardino e mi stupii nel trovare un mélange di umorismo e gusto per il bizzarro, che prima mi spiazzò e poi mi affascinò senza che nemmeno mi fosse chiaro il motivo. Era un fumetto particolare, diverso da tutto quello che avevo letto prima, non capivo quanto quegli eccessi fossero voluti o meno. Il protagonista era un sosia dell’agente Dale Cooper di Twin Peaks e con lui tutta una squadra di pittoreschi acchiappafantasmi, dallo scienziato pazzo Chuckie al palestrato minus habens Nick passando per la ninfomane Helga e addirittura una pianta carnivora gigante. Nel mio albo preferito si raccontava di una malattia che trasformava di colpo gli uomini in coni viola. Per me il fumetto di Sclavi era intoccabile, quindi quella sorta di parodia la presi con le pinze. Volevo capire chi era l’autore per dedurre le sue intenzioni e in firma ritrovai lui: Gianfranco Manfredi. Sicuramente era un omonimo. Ma l’avevo pensato pure di Enzo Braschi, scrittore di saggi sui nativi americani che mai avrei pensato fosse il paninaro di Drive In. Invece quel Manfredi era proprio il capotreno. E oltre che attore, sceneggiatore e fumettista scoprii che era anche musicista. Infatti in un numero della serie si pubblicizzava anche il suo ultimo cd, In paradiso fa troppo caldo, con tanto di foto dell’autore, i cui baffi si erano nel frattempo fatti grigi. Scottato dal fatto del videoregistratore, non avendo il lettore cd me lo comprai apposta per poterlo ascoltare, per poi recuperare tutto quello che era disponibile dei suoi album precedenti e anche il classico Arcimboldo di Ricky Gianco, che lo vedeva firma di diversi testi. Scoprii un cantautore originale, una fucina di idee e annotazioni ironiche e affilate, un’ulteriore estensione della personalità poliedrica e simile solo a se stessa che avevo già intuito.
Un giorno lessi il nome di Manfredi nel colophon di un numero di «Dylan Dog» e non mi sorprese. Il suo passaggio nella serie di punta della Bonelli era naturale. Negli anni Novanta Manfredi scrisse molte storie per «L’Indagatore dell’Incubo» anche se non so quanto amasse il protagonista, così diverso da lui. Ma ne ricordo una particolarmente evocativa e malsana, pubblicata in un albo gigante, Il masticatore di sudari, coi disegni di uno stratosferico Corrado Roi. Dove lo preferivo era però su «Nick Raider», specie quando tesseva dei tesi psicodrammi da film di Fassbinder ma in salsa poliziesca. Lì spiccava la sua predilezione per i personaggi rispetto alle storie, anche se all’intreccio non mancava mai nulla e gli veniva clamorosamente naturale.
Ma fu con «Magico Vento», il personaggio da lui creato, che per me il sole diventò verde. Una serie strepitosa, ambientata alla fine della frontiera americana e che andava a raccontare gli anfratti meno esplorati di quello scenario dalle infinite possibilità. Adulta, libera, dai personaggi maestosi e dai dialoghi sempre perfetti, divenne facilmente la mia serie preferita in assoluto, insieme al «Napoleone» di Carlo Ambrosini, anch’esso nato in quegli anni felicissimi. Chiunque mi abbia conosciuto negli anni Duemila mi ha sentito pronunciare le parole “Magico Vento” nella prima mezz’ora di conversazione. Una volta venne ad Arezzo l’attrice Cecilia Dazzi per presentare un film e mi trovai a doverle dare un passaggio verso la stazione per il ritorno. E in pochi minuti in macchina, pure a lei: «E in pratica c’è questa serie, “Magico Vento”…». Mi guardò come si guarda un modem.
Mi ci ero così appassionato che non solo ricordavo in ordine cronologico titoli e relativi disegnatori e passatori a china, ma sapevo associare a ogni numero il colore della costola, cosa che so fare tutt’ora ed è un peccato non vada più in onda Scommettiamo Che.

Nel 2008 ebbi finalmente modo di incontrare Manfredi a Lucca Comics. Ricordo che pareva il generale Custer con dei fumetti sotto al braccio. Avevo il pur lontano dubbio che fuori dalla scena sarebbe stato un autore chiuso e sulle sue, di quelli che non dicono, che non si capisce cosa c’hanno, che si rollano la sigarettina rincagnati. Tutto il contrario. Un fiume di parole, aneddoti, ragionamenti, idee. Quasi mi fece paura. Io del resto ne approfittai e lo subissai di domande, un po’ perché le avevo accumulate negli anni, un po’ perché ci tenevo a fargli vedere che ero preparatissimo e conoscevo la sua opera a menadito. E soprattutto volevo mi aiutasse a recuperare il mio personale Sacro Graal: una registrazione di Kamikaze. Purtroppo mi disse che non l’aveva nemmeno lui, forse per levarmi di torno. Fu comunque molto gentile, ma a un certo punto si divincolò perché stava per iniziare il suo incontro a Palazzo Ducale. Quando arrivò il momento delle domande, il pubblico gliene fece delle più generiche, non gli chiese del personaggio di Wyoming Bill in «Magico Vento» e se fosse una leggenda o meno che esisteva una storia mai pubblicata disegnata da Carlo Marcello. Be’, io quel pubblico l’avrei garrotato. Appena finì l’incontro avevo il treno in partenza, quindi mi dirottai alla velocità della luce alla bancarella per comprare il suo ultimo libro, Ho Freddo (ebbene sì, era anche scrittore, sia romanziere che saggista), e mi ci fiondai per farmelo firmare. Lì feci una figura di merda, perché vista la mia velocità mi disse: «Sì, il libro bisognerebbe anche fermarsi a pagarlo eh!». E io, morto di vergogna: «No, no! L’ho pagato!». E lui, capendo il mio imbarazzo, mi sorrise rassicurante mentre me lo firmava. Ma io, che vengo dalla campagna dove il furto è peggio dell’omicidio, lo trattenni il tempo che mi ci volle a ricercare lo scontrino e mostrarglielo, perché passare per ladro proprio no!
Comunque in quell’occasione mi dette la sua email e gli scrissi, mandandogli tra l’altro il mio primo libro, ancora in cerca di un editore. Se lo lesse tutto, scrivendomi una lunga lettera in cui citava anche singoli capitoli. Da lì capii che lo aveva letto sul serio. Quando vidi che non me lo aveva nemmeno stroncato, fui più felice che se avessi limonato con una bella fica. Gli risposi con una lettera che mi imposi fosse lunga almeno come la sua, per non deluderlo. La sua successiva risposta fu lunga tre volte la mia.
Nel 2016 quel libro lo avevo pubblicato e così altri due dopo. Ai tempi scrivevo su «Pixarthinking» e Manfredi fu uno dei primi nomi che feci al direttore Mattia Coletti allo scopo di intervistarlo. Coletti mi dette il via libera e Manfredi pure, ne uscì una lunga intervista in cui ammetto che ogni mia domanda era un po’ pensata perché ritenesse quell’intervista una delle cinque più belle che gli avevano mai fatto.
Gianfranco Manfredi è venuto a mancare due settimane fa, aveva settantasei anni. Non me ne sono accorto che è passato tutto questo tempo, nella mia mente lui ne aveva ancora trentacinque, non un giorno in più di quando strappava i biglietti incazzato su quel treno e il giorno dopo ne parlai con la maestra. Con lui se ne va un talento, una personalità e un’intelligenza che, per la loro estrema peculiarità, non lasciano eredi. E se ne va anche quella corrente bonelliana che piaceva a me. Matura, coraggiosa e raffinata all’interno della sua classicità, quest’ultima vista come una risorsa e non come una gabbia. Una corrente che vedeva Manfredi e Ambrosini come due assoluti baluardi. Dopo «Magico Vento», Manfredi avrebbe creato anche due appassionanti miniserie, come «Volto Nascosto» e «Shanghai Devil». E poi una serie lunga, «Adam Wild», che avrebbe dovuto essere un romanzo storico sullo stile di «Magico Vento» ma in ambientazione africana di fine 1800. L’annuncio della serie fu la più bella notizia che potessi ricevere, quando comprai il primo numero sognai una saga che mi avrebbe accompagnato per decenni, l’inizio di una nuova, lunga avventura. Del resto, da che ero piccolo, quando buttavo l’occhio nel baule delle mie passioni attuali Manfredi c’era sempre. Solo che i tempi erano cambiati e la serie chiuse al ventiseiesimo numero. Quando lessi l’ultima pagina di «Adam Wild», capii che quella sarebbe stata l’ultima tavola di quel periodo così felice.
P.S.
Se mai qualcuno avesse la registrazione di Kamikaze (Bruno Corbucci, ITA 1986), si faccia vivo.