Il Vietnam, per qualche anno, fu letteralmente la cosa più importante del mondo, una battaglia da cui non ci si poteva chiamare fuori, specie se si faceva parte del mondo della cultura. Anche per chi non si professava rivoluzionario c’era un chiaro imperativo morale: fermare il genocidio.

I letterati italiani non mancarono di rispondere. Nel 1967 Goffredo Parise, uno scrittore che non considerava obbligatorio l’impegno politico, andò in Vietnam per conto dell’«Espresso». Partecipò a missioni di combattimento con l’esercito americano, esplorò la prostituzione a Saigon, intervistò il comandante americano, il generale Westmoreland. L’anno dopo, nel fatidico 1968, gli articoli uscirono in volume per Feltrinelli con il titolo Due, tre cose sul Vietnam, un libro che non è difficile trovare ancor oggi sulle bancarelle dell’usato insieme ad altri titoli d’epoca come Perché il Vietnam resiste o Il Vietnam vincerà. Parise è un vero scrittore, almeno per come lo intendo io: non pontifica, non predica, non improvvisa analisi geopolitiche. Descrive solo ciò che ha visto, ma il punto di vista è chiaro: la guerra del Vietnam è un conflitto fra umanità e disumanità e lui sa da che parte stare, costi quel che costi: «Vorrei morire in Vietnam… umilmente, semplicemente, anonimamente e felicemente uomo, tra altri uomini umili, semplici, anonimi e nonostante tutto felici». Parise ringrazia il direttore dell’«Espresso», Eugenio Scalfari, perché gli «ha dato l’occasione di far affiorare in me una aspirazione che non era ancora apparsa nella mia vita e che ora, anche se per pochi istanti, comincio a contemplare con strana calma».

Sempre sulle bancarelle potreste trovare il dvd di un film altrimenti introvabile – non è in commercio, non c’è in streaming; solo qualche frammento su Youtube –, Lettera aperta a un giornale della sera, del 1970, di Francesco “Citto” Maselli. È un film sul Vietnam, o meglio su ciò che il Vietnam significava allora in Occidente. 

Il milieu è simile a quello che Ettore Scola metterà in scena dieci anni dopo nella Terrazza, cioè l’élite culturale di sinistra. Sette amici – un direttore editoriale, uno scrittore, un professore universitario, un regista, uno scultore, un pubblicitario e un imprenditore – si incontrano regolarmente a casa dell’uno o dell’altro per parlare di politica e di sesso in compagnia delle rispettive mogli, compagne e amanti (attori e attrici non professionisti ma spontaneamente eleganti; parecchia nudità). Sono inquieti, “alienati”, soffrono dell’abisso fra i loro ideali marxisti e il successo di cui godono nell’Italia neocapitalista: come in C’eravamo tanto amati dello stesso Scola, erano partiti per cambiare il mondo e il mondo ha cambiato loro. Una sera in cui sono particolarmente scazzati, all’ennesima richiesta di una dichiarazione sul Vietnam da parte del quotidiano comunista «Paese Sera», reagiscono con un provocatorio documento in cui annunciano di voler andare a combattere a fianco dei Vietcong, convinti che il giornale non lo pubblicherà.

Invece viene pubblicato, sia pure dall’«Espresso», e, in breve, tutti lo prendono sul serio, compresi Jean-Paul Sartre e i Vietcong stessi. I sette amici sono comprensibilmente colti di sorpresa e

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