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Il viaggiatore è nella posizione difficile di chi non sa nulla e giudica dalle apparenze – la posizione di un idiota e al tempo stesso l’allegoria, forse, di un’ignoranza più vasta, quella che nutriamo per tutto ciò che esorbita dall’ambito delle pochissime cose che conosciamo veramente. Un’ignoranza simile è anche un’occasione, perché oggi mi regala una chiarezza di sguardo che nella mia vita reale ho perso da tempo, per abitudine forse, o forse per paura.
Sono per la prima volta a Città del Messico e per ora ho passeggiato solo nei quartieri ricchi (Hipódromo, Condesa, Roma, che ironicamente è divisa in una Roma Norte e una Roma Sud come l’originale) scoprendo che assomigliano più al Greenwich Village che alla Roma cui siamo abituati: molto verde (natura rigogliosa, subtropicale ma ordinata, disciplinata e usata come decorazione per creare l’ombra, che è fondamentale per sopravvivere quando il sole diventa feroce a metà della giornata), case basse, di dimensioni più piccole delle nostre e dall’aspetto un po’ precario (i terremoti sono frequenti e alcune facciate sono palesemente storte perché il terreno cede, la città sorgendo su un lago, il Texcoco, che gli spagnoli prosciugarono dopo che ebbero distrutto Tenochtitlan) e costruite in gran parte dopo la Rivoluzione nello stile che si chiama Liberty messicano, oppure nella versione locale del modernismo di inizio secolo, che in Messico ha prolungato i suoi effetti fino agli anni Sessanta inoltrati spandendo finestre a fascia ovunque. Case decisamente belle qui a Hipódromo-Condesa e abitate da una upper middle class bobo, indigena o statunitense, che ama molto i cani (il quartiere è pieno di cani e di dogsitter) e fa jogging nella corsia pedonale, tra alberi, bar, palestre con dentro la bandiera arcobaleno e ristoranti di livello, arredamento sobrio e luce giusta, dove l’upper middle sopracitata lavora al computer, senza la musica di merda e i gestori coatti che, in ogni medio bar italiano, spingono quelli come me a andarsene rapidamente.
Fabrizio, che mi ha invitato, e sua moglie Larissa, detta Lari, si occupano di me con una cura commovente e protettiva della quale sono grato anche quando mi imbarazza un po’; e tuttavia sono giunto a un’età nella quale questa forma di dedizione gratuita a qualcuno (me, nella fattispecie) mi suscita una specie di struggimento, tanto più perché questo qualcuno comincia a sentirsi meno forte, meno intelligente di come amava pensarsi qualche anno fa, più bisognoso di una protezione che, per come si è messo il mio destino, nessuno può assicurarmi ora. Fabrizio è uno scrittore che ha scritto poco per adesso, e che stimo molto anche perché scrive poco, e solo quando è necessario. Vive in Messico da quindici anni, è diventato cittadino messicano, e la seconda cosa che mi dice del Messico è “sono qui da tanto tempo ma credo di non averci capito molto”. La prima me l’ha detta l’altra sera quando lui e Lari erano venuti a prendermi in aeroporto di notte e io guardavo per la prima volta la città dal finestrino mentre giacevo sconvolto dal jet lag nel sedile posteriore della loro auto. È una frase di Breton, “il Messico è il paese più surrealista del mondo”, che spesso viaggia in coppia con una frase gemella ma derivativa di Dalí, “non tornerò mai più in Messico: non sopporto di stare in un paese più surrealista del miei quadri”. (Negli anni Trenta molti intellettuali europei visitarono il Messico postrivoluzionario e vennero colpiti dal suo esotismo: Ėjzenštejn si avvicinò all’etnologia per questo, Breton e Dalí se la cavarono col passe-partout del surrealismo, che in fondo va bene con tutto). Ma se Fabrizio lo conoscevo già, chi non conoscevo ancora è Lari, che mi sta subito molto simpatica. Avvocata dell’associazione delle banche messicane, è lei che guida l’automobile, prende le decisioni in tutti i viaggi che facciamo e sostanzialmente ci comanda. Fabrizio e io siamo molto contenti che sia così: deleghiamo volentieri. Mi portano in giro spendendo senza pensare, come fanno le persone che non hanno problemi di denaro, e io li assecondo, sempre senza pensare, perché ormai pure io sono diventato abbastanza ricco, e perché da qualche anno penso spesso alla morte (cioè sempre), e vorrei esistere qui ora prima che sia tardi, come non ho mai fatto, e come forse non so fare. Lari e Fabrizio sembrano conoscere tutti i ristoranti di Città del Messico e danno molta importanza alla cucina, al piacere della cucina. È grazie a loro che imparo la parola foodie, ma ora che la conosco sono anche felice di farne a meno, ecco. Comincio a scrivere questo appunto a Oaxaca (si pronuncia Uacàca, con la c aspirata), a cinque-sette ore di macchina da Città del Messico a seconda della violenza del traffico, dove mi hanno portato in vacanza per tre giorni anche per andare in un paio di ristoranti notevolissimi.
L’uscita in auto dai quartieri bobo è stato il mio primo contatto vero con la conurbazione di Città del Messico. Per raggiungere una zona non antropizzata occorre un’ora e mezzo; normalmente ci vuole di meno ma oggi è l’inizio del ponte pasquale e le strade si saturano subito. Ci si allontana dal centro prendendo viali rettilinei a tre corsie. Non so a quando risalgano, ma oggi sono palesemente sottodimensionati al fabbisogno viario di ventidue milioni di persone agglomeratesi rapidamente, caoticamente, in pochi decenni. Dopo qualche chilometro Roma Norte e Roma Sud scompaiono e si dirada la vegetazione urbana; al loro posto rari alberi e cubi sempre più basici dall’aria abusiva, fatti di mattoni di cemento dipinti in colori vivaci o lasciati senza intonaco, secondo un grado zero del costruire tipico del Sud globale, lo stesso che si incontra in Cisgiordania o lungo la Circumvesuviana, per dire, con in più un cromatismo latinoamericano simile a quello che si vede nei quartieri periferici di Santiago del Cile o di Buenos Aires. Rispetto a Buenos Aires cambia il rapporto tra pieni e vuoti (qui i pieni e la densità sono maggiori; manca la pianta di ispirazione haussmanniana, manca quel senso di ordine che Buenos Aires mantiene anche nei posti peggiori, almeno fino a quando la si percorre in macchina senza uscire dai vialoni, come facciamo noi turisti); rispetto a Santiago c’è meno casino e più ricchezza. Perché il Messico è relativamente ricco: è la quindicesima economia del mondo, il Pil in crescita, la disoccupazione bassa; sulle porte dei negozi compaiono cartelli che dicono “se busca personal”; se nei decenni scorsi l’emigrazione verso gli Stati Uniti era forte, ora i messicani emigrati cominciano a tornare; il paese ospita migranti centroamericani, soprattutto guatemaltechi, salvadoregni o honduregni, in transito verso gli Stati Uniti o intenzionati a rimanere qui; il muro che Trump vuole costruire è destinato a loro più che ai messicani, mi dicono.
La cifra di quello che vedo qui è il contrasto. Contrasto tra le classi, certo (il costo della vita a Condesa e Roma Norte è superiore a quello di Milano, lo dicono le statistiche, non le mie impressioni; mentre a tre o quattro chilometri da qui, dove comincia l’edilizia informale borderline tra la borgata e la favela, decine di poveri scivolano tra le macchine in coda ai caselli e provano a venderci cappelli antisole, aquiloni, teli-mare, robe da bere, robe da mangiare); ma prima ancora contrasto tra gli elementi ancestrali preumani: la Luce e l’Ombra (la prima è violentissima: siamo a 2300 metri d’altezza in un clima secco, si viene da mesi senza pioggia; quando si cammina a metà della giornata si ha l’impressione di stare sotto una lampada abbronzante; poi però le piante subtropicali sparse in città, o almeno nei quartieri ricchi, creano spazi ombrosi nerissimi, quasi freddi; l’escursione termica tra giorno e notte è di almeno venti gradi); l’Ordine e il Disordine (la qualità delle strade è superiore a quella di Roma e l’arredo urbano è meno esposto al vandalismo romantico di massa del primo cretino che disegna sui muri per esprimere se stesso, cioè nulla; ma i cavi elettrici sono stati lasciati a vista, formando una sorta di struttura arborescente parallela, una seconda natura paratropicale fatta di gomma aggrovigliata sui pali che fiancheggiano le vie).
Ormai siamo arrivati in periferia e ai lati della strada ci sono solo distese di cubi non finiti, per lo più a uno o due piani, senza l’accenno di un tetto, con l’endoscheletro del cemento armato che esce fuori e si protende verso l’alto, verso un futuro rialzo abusivo; sopra la distesa piatta che sostituisce il tetto inesistente compaiono delle cisterne d’acqua, versione povera dei cisternoni che si vedono sui tetti dei grattacieli americani (i messicani non amano la sineddoche “americani” per “statunitensi”, com’è ovvio che sia, dunque è l’ultima volta che la uso: promesso). La vastità della conurbazione dipende anche dalla natura tutta orizzontale dell’architettura. I palazzi sono relativamente pochi, probabilmente a causa dei terremoti, mentre lo standard è l’edificio cubico a uno, due, talvolta tre piani, e questo contribuisce a estendere nello spazio una città che sarebbe immensa già di suo; e ora che si sono diradate anche le piante si comincia a vedere sempre più spesso una cosa che diventerà frequente nei prossimi chilometri, vale a dire la casa isolata col muro di cinta che assomiglia ai compound mediorientali o a certe case contadine spagnole, o meglio a una versione povera della casa contadina spagnola, spesso senza intonaco e con i mattoni grigi di cemento al posto dei mattoni veri o delle pietre. In Messico ciò che in Italia sarebbe un’insegna illuminata diventa una pittura a muro col nome del negozio e la descrizione delle attività (“Vulcanizadora”); le pitture possono però anche dipingere i loghi di grandi marche (molto presente Bardahl, col suo marchio studiato, complesso, nero su fondo giallo) o servire alla pubblicità politica; e siccome a giugno si vota, oggi i muri del Messico sono coperti di slogan lunghissimi e dipinti da imbianchini specializzati. Capillari quelli del partito di governo, che si chiama Morena, acronimo che sta per Movimiento de Regeneración Nacional. L’aggettivo morena vuol dire anche “di pelle scura”, come sono i meticci, cioè la maggioranza della popolazione messicana, contrapposto a güera o güero che significa “di pelle bianca”; Virgen morena è il soprannome della Madonna di Guadalupe, protettrice del Messico, molto cara alla religiosità popolare, le cui statue sono frequentissime nelle città, anche perché vengono usate, mi dicono, per tenere pulito il marciapiede dalle immondizie (pochi oserebbero lasciare il proprio sacchetto davanti alla Madonna di Guadalupe). In questi mesi di campagna elettorale Morena ha sparso ovunque il nome della sua candidata, Claudia Sheinbaum, quasi sempre chiamata per nome (“Claudia Presidenta”), così come la sua avversaria principale, Xóchitl, che di cognome fa Gálvez: un gesto, questa omissione del cognome, di populismo purissimo, come quando noi diciamo “Silvio” o “Giorgia”; e ora che stiamo attraversando i barrios poveri dove si vota per Sheinbaum, Fabrizio e Lari mi spiegano che cosa sia Morena; mi raccontano del populismo (ufficialmente di sinistra) del partito di governo e del suo capo assoluto, Andrés Manuel López Obrador, che tutti chiamano con l’acronimo AMLO, un misto tra il primo Putin e Hugo Chávez, mi dicono: potere personalistico e finto pauperismo; conferenze stampa quotidiane trasmesse in diretta che durano tre ore e nelle quali attacca gli oppositori, i ricchi e i colti, come faceva Chávez in Aló Presidente, ma figlio mandato a studiare in una scuola privata; vasti programmi di spesa pubblica usati spesso per scopi clientelari: qualcosa di tipicamente sudamericano che però si è trasformato, col tempo, in un modello politico da esportazione; e mentre procediamo lentamente dentro un grande ingorgo a tre corsie fiancheggiato dai lavori in corso, compare il primo dei camion della Guardia Nacional con militari in assetto di guerra che incontreremo spesso nei nostri viaggi in autostrada.
A Città del Messico e a Oaxaca i cartelli della droga sono poco presenti. Si sospetta che i narcos appoggino sottobanco Obrador, il quale li combatte a parole ma poi, durante una visita ufficiale in Sinaloa, si ferma a salutare la madre del Chapo Guzmán (è successo); e tuttavia ci vorranno generazioni per cancellare dalla memoria le decine di migliaia di morti ammazzati tra il 2007 e il 2012, con una recrudescenza nel 2019 (lo slogan di Xóchitl è “un México sin miedo”); dunque oggi è inevitabile che il partito al potere esibisca ovunque la Guardia nazionale in passamontagna e con il mitra in mano, tanto più che si è a due mesi dalle elezioni. Poi entriamo nell’autostrada vera, che non è separata nettamente dal resto del mondo come le nostre; ai lati ogni tanto si aprono degli spiazzi, probabilmente abusivi, con baracchine che vendono cibo o cose per l’auto e il camion. Carreggiata buona, buona l’organizzazione della strada, molti riduttori di velocità per impedire che la gente si ammazzi lungo i rettilinei. Parco-macchine e parco-camion che riflettono le differenze sociali: si va dal Suv aggiornatissimo all’autobus degli anni Sessanta che sfumazza in giro; dall’ultimo modello di auto tedesca a un camioncino pieno di materassi e inclinato verso destra che sembra sul punto di ribaltarsi, ma intanto viaggia a centodieci sui saliscendi delle cordigliere e ci umilia sorpassandoci. Il viaggio verso Oaxaca si rivela lunghissimo: quattro incidenti (uno probabilmente mortale: una Ford Ka degli anni Novanta accartocciata dal lato guidatore contro un pullman; il corpo messo dentro l’ambulanza ferma accanto alla carcassa), una serie infinita di caselli che creano code lunghissime, e a ogni coda i poveri invadono la carreggiata e cercano di venderci qualcosa. Attraversiamo Puebla, che ha due milioni e mezzo di abitanti ma dall’alto della sopraelevata pare una distesa di case senza un’organizzazione visibile; poi ci ritroviamo nel paesaggio rurale messicano. Prima vediamo vasti territori coltivati e strani, sotto un cielo bianco fatto di polvere (secondo Fabrizio si tratta di eruzioni vulcaniche, il Messico pullulando di vulcani attivi ed essendo sorto grazie alle eruzioni; a me sembrano più prosaici incendi), aridi in apparenza ma in sostanza fecondissimi (“qui se butti un seme in terra la pianta cresce da sola”: sempre Fabrizio), animati dalla stessa vitalità feroce che si vede nel verde urbano addomesticato; poi le colture spariscono, l’autostrada diventa una strada a due corsie larghe dove sorpassare significa sperare che chi procede in senso inverso non voglia morire, anche se sembra esserci una tacita convenzione per cui tutti si fanno da parte quando l’altro invade la carreggiata, prescindendo da ciò che dice la segnaletica orizzontale, in una sorta di autorganizzazione anarcoide che a suo modo funziona. Intanto il paesaggio si è inaridito e disantropizzato e noi saliamo e scendiamo per mezze montagne piene di cactus alti due metri. È raro per un europeo attraversare decine e decine di chilometri completamente disabitati. Ogni tanto, da lontano, si intravede una traccia umana sotto forma di deposito o di capannone; poi ricompaiono le casupole ai bordi della strada, posti improvvisati di ristoro e di soccorso, poi case contadine circondate dal muro in mattoni cementizi, poi la periferia di Oaxaca. L’ingresso in città avviene attraverso lunghi viali fiancheggiati di carrozzerie, elettrauto, gommisti, piccoli bar, piccoli ristoranti, tutti con la loro insegna dipinta; poi arrivano case più alte magari ricoperte di cartelloni pubblicitari giganteschi, poi i distributori. In Messico i distributori sono bellissimi e contribuiscono, insieme alle insegne dipinte dagli imbianchini-pittori, a creare una sorta di pop art nel senso proprio, etimologico del termine, diffusa, capillare. Nelle distese di negozi liminari alla città, il Messico, come del resto in molte altre cose, mostra di appartenere a una fase storica anteriore alla nostra: nei punti della città o della periferia dove da noi troveremmo arredamento, moda, design o altre forme di estetizzazione della vita, qui si trovano riparatori di auto o piccolissimi commerci alimentari: cose utili, insomma, cose primarie.
Al centro, Oaxaca è una città coloniale con pianta quadrata, case pitturate nei colori caratteristici di qui (il rosso scoperto sugli edifici precolombiani, che sembra il corrispettivo esatto del rosso pompeiano, il ciclamino, un certo tipo di arancione, l’ocra, un certo tipo di verde chiaro, il turchese). Finiamo in un ristorante e poi in un albergo di relativo lusso, con la piscina sul tetto che si rivelerà, alla fine della fiera, una vasca espansa. Nel viaggio abbiamo parlato di noi, ci siamo conosciuti. Lari ha una biografia straordinaria che non racconteremo, piena di traversie, di difficoltà vere superate con coraggio, che oggi la legittima a avere uno status e a usarlo. Al cospetto di una persona simile è come se io non fossi ancora nato. Non mi è chiaro perché io sia venuto qui; mi è chiaro però che, quando mi è stato proposto, non ho avuto esitazioni a accettare. Questo desiderio presenile di viaggiare ha a che fare con l’idea della morte, e ancor più con l’idea, che da qualche tempo mi tormenta, di non aver vissuto, come se tra me e ciò che mi è successo e mi succede ci fosse stata sempre una specie di intercapedine, e come se la vita che sto vivendo non fosse mai stata a tutti gli effetti la mia vita; e infatti oggi fatico a raccontarla, perché mi sembra senza importanza, e perché in fondo non mi appartiene.
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Lari e Fabrizio (ma credo che l’idea sia di Lari) hanno affittato un autista (credo che si chiami Rodrigo, ma ho perso il momento delle presentazioni e ora è difficile recuperare senza passar per maleducati), e ora Rodrigo ci porta in giro nei posti decisi da Lari e Fabrizio guidando delicatissimamente sopra i riduttori di velocità. Lari lo tratta subito con grande gentilezza, ma al tempo stesso sa mantenere le distanze con un modo che rivela un’esperienza del mondo nata quasi sicuramente in un luogo di lavoro, mentre io, che non ho mai lavorato per davvero, non saprei come gestire la presenza di Rodrigo, oscillerei maldestro tra lo straniamento e una familiarità entrambi fuori luogo, e ora, seduto sul sedile di dietro come un bambino gigantesco, la studio e imparo come si fa.
In Messico le differenze sociali sembrano notevoli, nella distribuzione dei soldi come in quella dei segni. Nei ristoranti dove andiamo noi si dà del tu ai camerieri (tra qualche giorno un amico peruviano, al telefono, mi spiegherà che in America Latina è normale che il superiore si rivolga all’inferiore usando la seconda persona); per le strade si incontrano ancora i lustrascarpe; lo stipendio medio di un commesso è meno di 600 euro. Nei ristoranti e negli alberghi la mancia (“la propina”) è un’integrazione necessaria, istituzionale, a stipendi che immagino molto bassi, come succede negli Stati Uniti; e come negli Stati Uniti il personale pare più numeroso che in Europa e organizzato secondo gerarchie precise (chi ci accoglie, chi ci serve e chi pulisce il tavolo sono tre persone diverse), con in più una deferenza da Ancien Régime, di origine spagnola forse, che può assomigliare a ciò che si incontra a Napoli, dove vigono il voi e il titolo presunto, mentre a Roma, dove vige il tu plebeo universale, la deferenza non esiste. Quando da Oaxaca torno al mio albergo di Città del Messico, Eduardo si offre di portarmi la valigia; quando gli do 50 pesos di propina (due euro e mezzo), lui si fa il segno della croce. È un signore sessantenne con la faccia da caratterista latinoamericano; servizievole in una maniera ostentata, melodrammatica (“es un placer servirle, señor”), a suo modo triste. Porta il nome scritto sulla giacca da lavoro, senza il cognome, come i janitors negli Stati Uniti.
Il primo dei posti dove andiamo oggi si chiama Hierve el Agua, “acqua che bolle”, ed è una cascata di calcare con pozze residue. La si raggiunge inerpicandosi per colline polverose e passando in mezzo a un villaggio indio che vive in tre tempi sovrapposti, quello ancestrale inciso nei corpi precolombiani che vediamo dai finestrini, quello cristiano della Semana Santa (Cristi in croce pavesati di festoni bianchi e viola, Madonne piangenti sulle porte delle case) e quello della tecnica (molti pick-up, molti posti-ristoro con grandi frigoriferi ipermoderni; i soliti elettrauto ai lati di strade sterrate dove passano greggi di capre e contadini a dorso d’asino). Quando arriviamo al parcheggio di Hierve el Agua, l’ambiente mi è ostile, il sole verticale batte crudelmente su di noi, intorno non c’è ombra. Mi copro di crema, mi metto un cappello imbarazzante con la tesa circolare larga e floscia, da paramilitare golpista, e seguo una guida che si offre di accompagnarci lungo la discesa. Paesaggio straordinario, certo, ma la natura mi suscita sempre passioni piuttosto tiepide, la più intensa delle quali è il fastidio per il caldo o per gli insetti. Qui, davanti a una cosa obiettivamente rara, mi colpisce molto il contrasto fra il chiarore della cascata di calcare e le colline marroni velate dal calore oltre il precipizio della cascata medesima, che molti sfidano per farsi selfie sull’orlo. Poi Rodrigo ci porta a vedere una distilleria di mezcal, che per i messicani sembra avere un significato quasi religioso, ma io, bevendo molto poco e non avendo mai avuto dipendenze se non dai telecomandi o dagli schermi, fatico a comprendere la sacralità dei liquori. La sera ceneremo benissimo in un posto chiamato Catedral. Fuori scorre la processione del Venerdì Santo: compagnie vestite di bianco e di nero issano statue espressionistiche del Cristo coronato di spine e col sangue che gli esce dal costato; cortei di incappucciati e uomini a torso nudo portano sulle spalle croci pesantissime. Mi chiedo chi siano queste persone fuori da questa pantomima, come siano fatte le loro case.
Ciò che i turisti pensano è sempre superficiale, e prima ancora che superficiale è proiettivo; dunque quello che sto per dire non ha alcun fondamento se non il fatto che l’hanno pensato in molti. Non ho mai visto una cultura così pervasa dalla morte, anzi da un certo tipo di morte. Se la nostra immagine della morte, che è dominata dall’idea del nulla, assomiglia a un luogo scialbo e vuoto, l’immagine che mi sembra di vedere qua è dettagliata e fisica, piena di scheletri e di corpi, estroflessa: la prima sala del Museo di storia messicana ospita una teca con i crani decapitati dagli aztechi; i negozi di souvenir vendono i teschi del Día de los muertos; i Cristi della Semana Santa sanguinano copiosamente nella loro agonia di cartapesta; fino a qualche anno fa i narcos crocifiggevano i nemici ai cartelli autostradali o li tagliavano a pezzi seminandoli lungo la carreggiata.
Nello stesso periodo mi capitava di visitare spesso “El blog del Narco”. Anonimo, nato ufficialmente per documentare le guerre tra cartelli che i governi dell’epoca, secondo i gestori del sito, cercavano di occultare nella loro gravità, e diventato ben presto una delle pagine Internet più visitate in Messico, “El blog del Narco” raccoglieva e raccoglie notizie sugli omicidi dei narcotrafficanti. Tra il 2007 e il 2012 le guerre di mafia in Messico hanno fatto un numero di morti che oscilla tra gli ottanta e i duecentomila, a seconda delle stime e di come si vogliono calcolare i desaparecidos. Negli anni successivi i numeri si sono abbassati, con una recrudescenza nel 2019, quando i morti son stati trentacinquemila circa, ma sono rimasti comunque altissimi. La parte più visitata del blog ospita video di interrogatori, torture e esecuzioni spesso girati dagli stessi narcos che poi li mettono in rete o li mandano direttamente al sito, a volte accompagnati da musica popolare, di solito corridos. Le clip più estremistiche portano la dicitura “video fuerte”, che ricorda il nome della portata principale nei menù messicani (“el plato fuerte”). In questo momento, per dire, l’ultimo video fuerte pubblicato sul blog si intitola “video muy sanguinario donde sicarios del Cártel Jalisco Nueva Generación decapitan vivo a integrantes de la Barredora”. Mi colpisce molto l’idea di violenza che circola in queste esecuzioni. Rispetto all’Isis, i narcos lavorano di più sul corpo, sulla sofferenza creaturale; le loro torture durano tanto (l’Isis invece privilegia il discorso dottrinario seguito dal colpo secco alla nuca o alla gola), e vanno avanti anche quando il divertimento si è esaurito e anche il boia sembra provare un principio di stanchezza. Si procede per estenuazione, come i supplizi d’Ancien Régime di cui si parla in Sorvegliare e punire. Gira anche un diverso tipo di ironia. Quella dell’Isis è avantpop e euforica, modellata sui film d’azione o le pubblicità, con video girati e montati professionalmente per creare un distacco tra l’evento e la visione, una patinatura postmoderna piegata però alle esigenze del discorso ideologico di chi crede fermamente in qualcosa. È un’ironia che colpisce le vittime, non i carnefici, i quali la assumono per sembrare cool, non certo per sminuirsi. Invece quella che circola nei video del narco ha qualcosa di esausto, come se la vittima e il carnefice fossero stanchi di fare ciò che stanno facendo e obbedissero a una sorta di autorità superiore, a una necessità oscura, zenitale, di cui sono entrambi succubi allo stesso modo, e che li fa uccidere o morire senza convinzione, lentamente, e solo perché si è arrivati a questo punto, perché è andata così e ormai bisogna scannare o farsi scannare, col distacco di chi non crede più a niente e vuole solo che finisca.
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Oggi Rodrigo ci porta a Monte Albán, la città costruita dagli Zapotechi, uno dei primi esempi di organizzazione statale mesoamericana. Sono preparato al sole ma impreparato alla bellezza di quello che vediamo: uno spiazzo di sabbia molto vasto che ospita due grandi piramidi ancestrali, misteriosissime. Siamo tra i primi a entrare, e ciò contribuisce all’effetto di meraviglia; i pochi umani disseminati sullo spiazzo diventano allegorie di qualcosa che ha a che fare con una specie di solitudine originaria. Scendo le scale di uno dei templi andando giù in diagonale, per non cadere, certo (la pedata dei gradini precolombiani è minuscola in rapporto all’alzata), ma soprattutto perché si deve fare così se non si vuol rischiare di dare le spalle agli dèi che abitano sulle piramidi e potrebbero offendersi, mi dicono.
Nel pomeriggio mi portano a vedere gli artigiani che scolpiscono alebrijes. È una tradizione inventata: nel 1936 un artista locale, Pedro Linares López, avrebbe sognato un paesaggio montuoso abitato da creature terrificanti che gridavano all’unisono la parola insensata “alebrije!”. Sopravvissuto a una febbre quasi mortale, López decise di scolpire i suoi animali con la cartapesta, e gli animali piacquero. In seguito un altro scultore, Manuel Jiménez Ramírez, ne fece delle versioni in legno dando inizio a un artigianato locale. Ciò che ha reso popolari gli alebrijes è il legame che si è creato (non so a chi sia venuta l’idea) tra questi oggetti e la magia zapoteca. Vengono venduti come creature totemiche garantite dagli antichi dèi mesoamericani. C’è un animale protettore e un animale spirituale: il secondo corrisponde a ciò che siamo e agisce in punto di morte attutendo l’angoscia; il primo ci protegge nel corso della vita. Va da sé che a noi occidentali interessi solo il protettore. Ad ogni modo gli alebrijes ci servono: vogliamo il favore degli antichi dèi mesoamericani, e soprattutto non vogliamo averceli contro. È per questo che passiamo il pomeriggio a cercare statuette, ci facciamo per due volte interpretare le date di nascita per sapere qual è il nostro animale (il mio è inopinatamente un cervo), e poi cerchiamo con ansia la sua statua. Non contento delle prime cose che trovo, perlustro tutti i negozi di Oaxaca e me ne compro due, di cervi.
(Il giorno dopo, nel viaggio di ritorno, Lari sorpassa un camioncino; l’auto che giunge in senso opposto, per le leggi non scritte della circolazione messicana, dovrebbe spostarsi verso la sua destra mettendo due ruote nella corsia di emergenza e lasciandoci passare, ma non lo fa. È un’auto nera, fallica, che non vuole cedere, è disposta a morire pur di non vedersi sminuita dal sorpasso di un’altra auto, per giunta anch’essa nera; lo fa per orgoglio, certo, suona il clacson e ci viene addosso senza deflettere, e io, come mi è capitato almeno altre due o tre volte in circostanze simili, rimango inaspettatamente tranquillo; una parte di me sta per morire in un modo atroce, soffrendo molto mentre tagliano le lamiere per estrarmi ferito orrendamente, un’altra osserva questa scena con curiosità e una certa attesa mentre l’auto si avvicina; poi Lari accelera, l’auto fallica ha uno scrupolo di coscienza e, continuando a dirci col clacson che meritiamo di morire, si sposta verso la sua destra).
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Città del Messico ospita forse il più importante museo di antropologia del mondo che raccoglie le tracce delle civiltà precolombiane e ha pure una sezione etnologica molto sviluppata che documenta la vita degli indigeni superstiti. L’edificio brutalista che lo contiene, interessantissimo come oggetto architettonico, sorge in un parco molto grande alla confluenza tra i quartieri di Polanco, a dominante ricca ma tendenzialmente incolta, e di Condesa, a dominante bobo.
L’origine dell’uomo, i cacciatori, i cacciatori-raccoglitori, la domesticazione degli animali, la nascita delle civiltà sedentarie, le prime forme di organizzazione sociale. Riproduzioni di pitture rupestri, crani, le prime tombe. Le didascalie parlano al visitatore non specialista trattandolo da persona intelligente, come non succede quasi più nei musei europei o nordamericani, e in questa sala insistono molto sull’importanza delle sepolture dando ragione alla Scienza nuova. Fra i primi tratti che separano gli umani dalle scimmie antropomorfe, che pure ci assomigliano moltissimo, c’è l’istituzione delle tombe, e insieme con le tombe l’idea, peraltro molto discutibile, che gli individui singoli siano insostituibili e che la loro morte meriti una cerimonia. (Una volta Demian Battaglia, che studia il cervello delle scimmie, mi ha spiegato che i gorilla hanno un linguaggio complesso, fatto di migliaia di parole e diviso in lingue regionali che cambiano di vallata in vallata; per studiarlo i suoi colleghi del CNRS tolgono la calotta cranica a una scimmia viva e ci mettono dentro degli elettrodi. Stavamo andando da Strasburgo a Colmar, con sua moglie Enrica Zanin e i loro bambini, a vedere la Crocifissione di Grünewald, su un’autostrada a tre corsie rassicurante e vuota come le infrastrutture nordeuropee nei fine settimana, dentro un paesaggio protettivo a dominante grigia, disciplinato, che smorzava di molto la presenza della scimmia). Nella prima sala, in una teca del pavimento, hanno ricostruito la sepoltura di un uomo di Shanidar, un Neanderthal del Paleolitico medio. Ha 35-40 anni e giace in posizione fetale, come fanno molti moribondi; i suoi simili hanno poggiato accanto al suo corpo delle pietre impilate e dei fiori per accompagnarlo; gli scultori gli hanno dato un’aria serena perché è un pupazzo, un pupazzo di cera, ma mi colpisce molto con questo suo abbandono a qualcosa che lo sovrasta e lo lascia inerme mentre io lo guardo, lo fotografo. Nelle sale successive, i Neanderthal si fanno sostituire dai Sapiens, che sono più evoluti e si spandono per i continenti, l’Africa, l’Europa, l’Asia, e infine, attraverso lo Stretto di Bering congelato, arrivano in America; e qui comincia la parte sulle civiltà precolombiane, le prime forme arcaiche, la misteriosa fioritura di Teotihuacan, che esporta i propri dèi a tutte le culture mesoamericane successive, insieme con le piramidi, il gioco della palla, i sacrifici umani. La sala più importante è quella dei Mexica (che noi chiamiamo Aztechi perché così ha deciso Alexander von Humboldt), i fondatori di Città del Messico, cioè di Tenochtitlan prima che arrivasse Hernán Cortés: civiltà guerriera complessa, militarista, dedita ai sacrifici umani, e al tempo stesso capace di sviluppare il commercio, organizzata secondo la divisione tra oratores, bellatores e laboratores, ma con una classe di mercanti separata dai contadini e come dotata di uno statuto suo proprio. Gli spagnoli rimasero impressionati dalla piazza dei commerci di Tenochtitlan, dove migliaia di persone ogni giorno trafficavano con ordine e metodo, dentro un sistema di regole preciso, garantito da una polizia che comminava pene severissime, al vertice della quali c’era, come sempre, la morte. I Mexica erano stati capaci di costruire, al centro di un lago, una città splendida che sedusse i Conquistadores, una Venezia subtropicale abitata da 250000 persone. Mi affascinano molto, e per ragioni che non riesco a decifrare, così come mi affascina Cortés, che arriva in Messico con cinquecento uomini e, dopo essere stato accolto dai Mexica come un dio e ospitato a Tenochtitlan, cerca nascostamente di rovesciare il loro impero tessendo alleanze con i popoli che i Mexica avevano sottomesso, e ai quali chiedevano tributi e vittime cui estrarre il cuore, da vive, sugli altari degli dèi.
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Stasera Lari e Fabrizio mi portano in centro per la prima volta. Atmosfera urbana molto diversa da quello che ho visto finora e che può assomigliare a quella di Napoli: densità e mescolanza tipicamente meridionali, case e strade fatte di pietre di origine vulcanica alle quali si sovrappongono elementi colorati che a qualcuno possono sembrare vitali, ad altri anarcoidi. Conosco Christopher Domínguez Michael, critico letterario, membro del Colegio Nacional, che mi ha formalmente invitato a tenere la conferenza grazie alla quale mi trovo qui. Vent’anni fa delle conferenze non me ne importava niente, pensavo solo a scrivere; oggi che mi rendo conto di aver scritto molto poco, questi happening verniciano la mia cartapesta, puntellano il mio cielo.
Dopo la cosa mi portano a vedere la piazza principale, lo Zócalo. Ci arriviamo dalla parte Nord, e la prima cosa che vediamo sono le rovine del grande tempio azteco raso al suolo. Con le sue pietre gli spagnoli costruirono l’enorme cattedrale in fondo alla piazza che inizialmente non vedo bene anche se ce l’ho a fianco, perché sono concentrato sul tempio distrutto, che mi interessa di più. Sembra l’equivalente dei Fori romani; anche la posizione nella città è simile benché sia tutto più piccolo, come in scala. È notte e le rovine risuonano di una presenza reale; tutto intorno gruppi di esaltati ballano danze tribali in nome di civiltà precolombiane morte. A poco a poco mi rendo conto che alla mia destra c’è anche il lato corto della Cattedrale: barocca, spagnola, gigantesca, tutta storta come gran parte gli edifici del centro, appoggiati su una vecchia laguna, sconvolti dai terremoti. Fatti cinquanta metri in mezzo a una folla di turisti, venditori e questuanti, davanti a noi si apre la piazza: una delle più grandi del mondo, quadrata e non-interpretata, con al centro due tendoni che ospitano bancarelle messi lì da Obrador, dicono Fabrizio e Lari, per impedire raduni politici d’opposizione da quando Obrador medesimo ha deciso di trasferirsi nell’antico palazzo dei Viceré della Nuova Spagna, che si affaccia sulla piazza. Le rovine del tempio azteco furono scoperte per caso alla fine degli anni Settanta, durante dei lavori di scavo per la posa di cavi elettrici. Christopher mi racconta che all’epoca qualcuno propose di abbattere la Cattedrale e ricostruire il Tempio, con un gesto che, al di là delle intenzioni, sarebbe stato, questo sì, una grande azione surrealista. Mi era stato presentato come persona socialmente difficile, capace di rimanere in silenzio per ore o di andarsene all’improvviso, e invece si rivela amabile: di un’intelligenza inattuale, dandistico e teatrale ma capace di tenere banco bene, di essere divertente senza sopravvalutarsi, o farci perder tempo, o riuscire velleitario. Gli lascio il centro della scena per farmi benvolere; ci salutiamo cordialmente promettendo di rivederci nei prossimi giorni – le cose che si dicono, insomma.
È quasi mezzanotte; Lari e Fabrizio mi riportano in albergo. All’uscita dell’Estacionamento público campeggia un’enorme statua della Madonna di Guadalupe; i grandi viali della città svuotati dalle auto rivelano la loro vastità. Sto diventando sempre più goffo quando si tratta di salutare le persone, come se il momento dei saluti togliesse, alla meccanica dei rapporti umani, la sua patina illusoria. Mi torna in mente l’immagine di me ventenne, la perplessità con cui venivo accolto da chi mi considerava, giustamente, uno dei tanti giovani sostituibili, indistinguibili, che nutrivano ambizioni; anch’io mi sarei trattato allo stesso modo, con la stessa perplessità con cui giudico, per dire, chi mi chiede la tesi o mi manda i suoi dattiloscritti; e questa immagine di me non c’entra nulla con i viali vuoti di Città del Messico ma è quello cui penso adesso, mentre l’auto di Lari e Fabrizio mi riporta a casa.
Di notte vado in televisione con Ambra su Canale 5 a ballare e cantare in una specie di duetto; io farò il professore, lei la studentessa. Mi hanno dato una settimana di tempo per prepararmi. Non sarebbe toccato a me, ma poi mi hanno chiamato e ho accettato di sostituire qualcuno di cui ho pure dimenticato il nome. Non so ballare né cantare, le persone che ballano e cantano mi imbarazzano, ma non ci penso. In fondo non è una mancanza così grave, il balletto dura meno di un minuto: imparerò. A tratti mi rendo conto di quanto sia assurdo ciò che sto per fare. È ridicolo cantare e ballare in Tv con Ambra, ma sarebbe ancora più ridicolo farlo male, e questa idea fermenta a poco a poco dandomi uno stordimento che non arriva mai alla coscienza. Per tutta la settimana inizio a preparare i passi davanti allo specchio e dopo poco mi distraggo, apro il cellulare per guardare i pappagalli buffi su Instagram. Poche ore prima di andare in onda faccio l’ultima prova; nella stanza David Matteini e Giulia Sarno mi guardano e cercano di insegnarmi qualche passo, ma è tardi e io sono goffo, e mi sveglio sudato e ridicolo, urlando.
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Il giorno dopo Fabrizio e Lari mi accompagnano a Teotihuacan a vedere le piramidi. Sacrificano il tempo per me come io non farei mai per un altro: avrei caricato l’ospite su un pullman di turisti, lo avrei fatto andare da solo, ma loro no, loro sono gentili e mi ci portano in auto. Teotihuacan sorge a quaranta chilometri da Città del Messico, in direzione Nord; per raggiungerla si attraversano le periferie settentrionali povere, coperte di favelas collinari non completamente brade, e proprio per questo strane. A ogni elezione, per guadagnare voti, qualche potere locale o nazionale aggiunge qualcosa di pensato all’anarchia della favela: una teleferica, la ridipintura di una facciata (lo si capisce perché i colori sono gli stessi per tutte le case toccate dal restyling), strade rettilinee che tagliano l’informale edilizio creando delle direttrici ortogonali ripide che vanno dal basso verso l’alto, chiaramente concepite nell’era del motore e non dell’animale, che ha bisogno del tornante per salire. Poi finiscono le favelas e comincia una media campagna interstiziale con i soliti gommisti e i soliti carrozzieri ai lati della strada, e qui la presenza umana si dirada fino a quando non la ritroviamo tutta insieme, sotto forma di bolo turistico, nel parcheggio delle piramidi.
Più monumentale e meno intima di Monte Albán, Teotihuacan, che non può contare sulla posizione e sul panorama, ha una dominante cromatica grigio-vulcanica, non giallo-sabbiosa, e anche per questo mi piace meno. Compensa però con le dimensioni, che sono gigantesche sia in altezza sia in estensione. La si gira sotto la ferocia del sole, ma ormai molti giorni di Messico mi hanno abituato. Mi spalmo di crema ogni due ore sopra ogni superficie esposta, tenendo le maniche della camicia abbassate come non si fa mai nella vita vera, dove le maniche si portano arrotolate. La strada principale di Teotihuacan, che lega le prime strutture urbane rimaste alla piramide della Luna, è lunga quattro chilometri e mezzo e si chiama “calzada de los muertos”, viale dei morti. Questo perché, quando i Mexica riscoprirono Teotihuacan secoli dopo il suo abbandono, che ebbe luogo nel 750 circa, credettero che le piccole costruzioni ai lati della strada fossero sepolture, mentre la città apparve loro soprannaturale, come dice il nome che le diedero, in lingua nahuatl Teotihuacan significando, più o meno, “la città degli dèi”. C’è conflitto tra l’eternità delle rovine e il brulichio di noi turisti, vivi e policromi, pieni di creme e occhiali da sole nel grande sabbione giù in basso, tra la mancanza di serietà dei vivi e la tragica pulizia dei morti, con tutto il loro minimalismo; perché se la morte sa essere ostentatoria (i Mexica strappavano il cuore alle vittime sacrificali mentre erano ancora vive, i narcos evirano i nemici e li obbligano a mangiarsi i testicoli mentre li fanno morire dissanguati), i corpi spenti o le città distrutte, i cadaveri insomma, non lo sono mai. (Un giorno del 1925 Duhamel, Prévert e Tanguy, all’epoca tutti surrealisti, inventarono un gioco che consisteva nel prendere un foglio e piegarlo a fisarmonica: ogni partecipante avrebbe scritto una parte di frase seguendo l’ordine soggetto-aggettivo-verbo-complemento-aggettivo, senza sapere che cosa avesse scritto chi l’aveva preceduto. Il risultato del primo foglio fu Le cadavre exquis boira le vin nouveau, e da quel momento il gioco, che divenne il primo procedimento codificato di scrittura collettiva surrealista, si chiama così: cadavere squisito).
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Nei giorni successivi penso solo all’eclissi che vedremo l’8 aprile 2024 a Durango. Ho prenotato e fatto prenotare da tempo, a Fabrizio e a Lari, l’aereo e l’albergo, ma ho l’impressione che Fabrizio e Lari, finora generosissimi, stavolta non condividano questa mia passione. Vedere un’eclissi è uno dei miei desideri infantili più profondi; me lo porto dietro come una mania, cosa rara appartenendo io alla schiera di coloro per i quali quasi tutto è sostituibile.
L’ho mancata una prima volta nel 1999 in Francia. Avevo prenotato con un anno di anticipo il treno da Parigi a Compiègne, dove la Società astronomica francese aveva stabilito il proprio campo-base ufficiale. Nei giorni precedenti il cielo si era fatto plumbeo, come può succedere d’agosto in Francia, ma Météo France scriveva “l’observation devrait se faire dans des conditions moyennes” dandomi così una speranza. Il giorno dell’eclissi pioveva, ma questo non mi aveva impedito di prendere un treno stracolmo per andare a Compiègne, posto tristissimo a nord di Parigi, uno di quegli agglomerati di quaranta-cinquantamila abitanti per i quali si usa il nome, a sua volta tristissimo, di “cittadina”. Il campo-base era uno spiazzo chiuso da una fila di bagni chimici, fangoso e pieno di bancarelle provviste di casse che trasmettevano telecronache astronomiche e immondizie musicali. Il cielo non si apriva. Vedevamo i segni esteriori dell’eclissi (la luce che cambia, la temperatura che si abbassa, un enorme cane lupo che tenta di staccarsi dalla catena nell’angoscia dell’attacco di panico) ma non l’eclissi, e io provavo una delusione infantile purissima, qualcosa che rimandava a profondità ignote e che schermavo con l’ironia.
Quest’anno ho paure di ogni tipo: che l’Uber con cui andiamo all’aeroporto si blocchi nel traffico, per esempio, o che il mio mal di stomaco di oggi si riveli essere una congestione, un’appendicite, una perforazione mortale che mi impedisca di vedere l’eclissi. Nei giorni scorsi ho insistito perché Fabrizio facesse subito il check-in, in modo da non rischiare l’overbooking; quando guadagniamo l’imbarco, decidiamo di spedire il bagaglio a mano in stiva, in modo da mettere già un piede sull’aereo. Siamo nell’ultimo gruppo. A un certo punto, come in un incubo blando, la compagnia dice che cerca sei volontari per rimanere a terra e diffonde il panico tra gli ispanofoni che capiscono il messaggio. È l’ultimo volo della sera, l’orario di partenza è stato più volte posticipato: non c’è alcuna possibilità di arrivare in tempo a Durango partendo il giorno dopo. Ci precipitiamo all’imbarco, e dopo corse e spinte innecessarie ci ritroviamo sull’aereo non si sa come, in mezzo a gente come noi che legge Pedro Páramo in inglese. Mi colpiscono due maschi americani adolescenti seduti davanti a me nella fila opposta, con i capelli lunghi e i piedi nudi nelle ciabatte da doccia Adidas, le più inaccettabili tra le tante calzature inaccettabili che gli umani hanno inventato per infliggere agli altri l’ostentazione delle proprie estremità. Per tutto il volo verso l’eclissi non riesco a non guardare i piedi nudi dell’adolescente che escono dalle ciabatte da doccia dell’Adidas.
L’eclissi mi attira perché è un lascito dell’infanzia, certo, ma non solo per questo, forse. Mi attira perché ho poco senso del sublime naturale ma ne ho molto del sublime celeste, e perché l’eclissi, in virtù della sua rarità, rappresenta la forma quintessenziale dell’epifania: dura tre o quattro minuti e scompare lasciando il ricordo di una pienezza effimera che ha interrotto, per poco, la ripetizione dell’esistere, creando uno di quegli istanti nei quali il tempo coincide col tempo e il presente campeggia isolato, per sé e non per altro, senza l’ombra del passato e del futuro. In questo senso potrebbe essere il contrario della vita come di solito la concepisco io: piena di spreco e differimenti, fatta di persone e cose che alla fine si equivalgono, coperta da un velo o da un limo. L’eclissi no, l’eclissi è incomparabile. Mi piace molto la sua natura di ossimoro: oscura l’astro che rende possibile la vita bruciandoci, sospende la combustione che, facendoci esistere, ci distrugge. Ho sempre trovato affascinante (per me, dico) l’antropologia del secondo Freud, quella che contempla, accanto al principio di piacere, la pulsione di morte. Freud presenta quest’ultima in due modi differenti, anzi opposti: come la forza che ci porta a perseguire il desiderio contro l’autoconservazione (è quello che succede nelle dipendenze, quando il piacere dell’alcool o della droga ci interessa più delle loro conseguenze) e come la pulsione che ci porta a preferire la quiete all’agitazione, l’inesistenza al desiderio, il nulla alla vita. Del primo di questi volti so relativamente poco, la mia vera dipendenza essendo la ricerca di novità e dopamina da sito a sito, da pagina Instagram a pagina Instagram; il secondo lo capisco perfettamente. Uscire dal meccanismo, sospendere la fatica di desiderare, o anche solo di rimanere in vita, e smettere di girare nella ruota, come se la più intensa delle passioni, la paura di morire, convivesse col desiderio di essere già morto.
Arriviamo a mezzanotte in un albergo di catena nel nero della periferia durangueña; mi danno una camera al settimo piano con una vista sui sobborghi, a suo modo splendida; domani a mezzogiorno vedrò l’eclissi e stanotte non ci dormo. La mattina, mentre cerchiamo di fare colazione in mezzo alla folla di quelli come noi, Lari e Fabrizio se ne vengono fuori con l’idea di andare nel parco principale di Durango, a qualche chilometro da qui. Non sappiamo come sia, ma l’alternativa è il tetto di un centro commerciale vicino all’albergo. Non abbiamo molto da perdere.
È il posto giusto: Durango, che ci era stata descritta come un luogo orribile, si rivela una città dignitosissima, e il parco dove ci stiamo addentrando, ordinatissimo, si presta al nostro scopo. Ci piazziamo intorno al Lago de los Patos, uno specchio d’acqua curato, che ospita, su una penisola artificiale, una casa di paperi, dando rifugio anche, già che ci siamo, a uno stormo di uccelli scuri ma non paperiformi di cui ignoro l’identità di specie. Ci procuriamo una panchina all’ombra e aspettiamo. Oggi anche la natura sembra significare, in parte perché è inserita in una storia più grande, in parte perché per una volta me la concedo in un ambiente non ostile. Mi cospargo di crema e estraggo gli occhiali da eclisse certificati che ho comprato nei mesi scorsi (ne ho presi sei) da un negozio on line di astronomia, tedesco e specializzato. “Il sole e la morte”, dice la più famosa tra le massime di La Rochefoucauld, “non si possono guardare fissamente”; oggi però io ci sto provando, pieno di creme e lenti protettive; e anche se già verso le undici la Luna comincia a intaccare il disco solare, per un’ora circa non ci si accorge di nulla; il satellite progredisce nel suo lavoro di erosione ma il Sole è potentissimo, e anche se la sua forza si è ridotta a un quinto o a un sesto, riesce ancora a fare il suo lavoro, la luce di un’eclisse parziale dell’80% essendo simile alla luce di un giorno velato, nulla più. Aspettiamo cercando di non percepire il vuoto dell’attesa; intorno a noi arrivano altre persone, ma non sono tantissime, non si aggregano e non ascoltano musica. A un certo punto un cane afferra un papero e lo trascina sul prato tenendolo tra le fauci; dovrebbe affondare i denti nel collo, ma tergiversa e viene circondato dagli umani che gli aprono la bocca e liberano la preda. Mi chiedo perché non lo abbia ucciso subito, o che cosa provi un animale nella posizione del papero, con i denti dell’altra bestia infissi nel primo strato del derma, se abbia un ormone della paura.
L’eclissi vera comincia un quarto d’ora prima della totalità, quando la luce si fa grigia e anomala indebolendosi repentinamente, gli uccelli si fermano sul bordo del Lago dei Paperi e si addormentano immobili, in piedi, come fanno gli uccelli, e i cani che ancora passeggiano nel parco diventano nervosi. È una luce che non ha equivalenti nella vita reale in nessuna condizione atmosferica, neanche nel più insolito dei temporali; assomiglia a certi filtri fotografici che azzerano il contrasto, apocalittica come il freddo che scende in pochi minuti, l’abbassamento repentino della temperatura avendo fatto alzare il vento; e mentre i sensori accendono i lampioni giudicando che sia scesa la notte, noi ci stendiamo sull’erba per guardare il Sole ridotto a uno spicchio minimo. Gli occhiali tedeschi non servono più: lo si può guardare fissamente. Siamo abituati a non vederlo nelle sue vere dimensioni, perché i raggi lo fanno sembrare dieci volte più grande di quanto non sia, soprattutto a mezzogiorno; e invece è una cosa debole, infima. Quando la Luna gli si sovrappone per intero, di lui rimane solo un bordo che si incendia formando un contorno illuminato, ma dura poco perché l’eclissi è ormai totale, la corona si accende contro lo sfondo scuro cancellando ogni bordo, e c’è silenzio.
Quello che segue si descrive male perché è un’esperienza religiosa. Con la schiena in terra scatto delle foto tenendo il telefonino sul petto, senza guardare nello schermo, per non perdere nulla di ciò che mi è dato vivere: non penso a niente. Dopo quattro minuti la luce torna all’improvviso (anche una striscia minutissima di Sole fa l’effetto di un interruttore che si accende); gli uccelli scuri si alzano a sciami tutto intorno a noi gridando. A lungo rimaniamo silenziosi; quando tornano le chiacchiere aleggia quella forma di tristezza che cala dopo le grandi esperienze o i desideri realizzati. La sera, nel dormiveglia, mi torna in mente il cane con il papero in bocca; di notte, alla fine di un sogno complicato, Roland Barthes esce da un tombino.
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Della metafisica mesoamericana apprezzo molto la concezione realistica della natura, l’idea animista, analogista e totemica del rapporto tra umani e non umani che lega dèi, uomini e animali in una catena di corrispondenze. Panteismo, certo, ma non stupidamente irenico come i panteismi nostrali. Per i mesoamericani il sangue, il liquido della vita che muove il mondo e rende fertile la terra, va preso dove si trova, nei singoli esseri effimeri, e fatto ricircolare attraverso i sacrifici; e questo perché la natura è ciclica e crudele, si alimenta delle morti individuali trattando i singoli come strumenti per un fine più grande. Le culture precolombiane portano un simile principio a un parossismo senza infingimenti, e in questo senso hanno qualcosa di rivelatorio: il boia che strappa il cuore al prigioniero ancora vivo, o al giovane guerriero prescelto per incarnare il dio, fa quello che la natura fa ogni giorno a migliaia di individui che muoiono malati nell’angoscia, nella rassegnazione o nell’accettazione, e insieme nella consapevolezza che un potere più vasto li sta distruggendo per alimentare un ciclo che non contempla la sopravvivenza degli individui. C’è poi il fascino ancestrale della violenza, che è una passione profondissima e a suo modo bella. Mi ha sempre colpito il rapporto di alterità estrema e di estrema intimità che si crea tra chi esercita la violenza e chi la subisce, colui che dà la morte essendo supremo come un dio, e al tempo stesso sensibilmente vicino all’ucciso, non foss’altro perché ce l’ha letteralmente sottomano mentre gli strappa le viscere o gli taglia la gola.
Christopher mi invita a pranzo e mi fa vedere la sua casa-studio a Coyacán, ex villaggio coloniale diventato quartiere residenziale di Città del Messico. Villetta a due piani adibita a studio e diventata abitazione dopo un divorzio, la casa di Chris è piena di libri in un modo difficile da descrivere; ogni stanza ne è coperta, pure il bagno e la cucina, ogni scaffale strapieno. “Hai già la casa-museo”, gli dico per lusingare il suo amor proprio e farlo contento. Poi mi porta a vedere la casa dove è morto Trockij, che è lì vicino. È una tipica abitazione messicana a un piano ferma al 1940. Noto per prima cosa il bagno, che è una delle stanze meglio conservate e meno prevedibili: stretta e lunga, con le pareti ricoperte da un intonaco ruvido e bicromo, la parte bassa, quella dove di solito si mettono le metro-tiles, dipinta in turchese messicano, la parte alta in rosa. In giardino hanno mantenuto (più probabilmente ricostruito) il pollaio dove Trockij allevava galline (per mangiarsele, credo). Il suo studio è intatto, il suo sangue secco sui fogli che giacciono sulla scrivania a un metro da noi, oltre il muretto di plexiglas.
Essendo da poco sopravvissuto a un attentato (i segni sono ancora sul muro), e sapendo che gli sarebbe stato difficile scampare al suo destino (i suoi figli erano tutti morti: o malati di tubercolosi, o fucilati, o avvelenati), Trockij si era asserragliato nella sua casa protetto da fedelissimi e militari messicani. Tra i fedelissimi anche il trozkista canadese Frank Jackson, che in realtà era lo spagnolo Ramón Mercader, agente del NKVD, che anni prima aveva appositamente sedotto la segretaria americana di Trockij per entrare nell’entourage di Trockij medesimo e cogliere il momento giusto per spaccargli la testa con la piccozza da ghiaccio. Trockij non morì subito: fece in tempo a chiamare aiuto, fu portato in ospedale dove riprese conoscenza per qualche minuto. Mercader venne arrestato e rimase in carcere vent’anni; poi fu accolto da Fidel Castro a Cuba. Quando dico a Christopher che Mercader è parente alla lontana di Christian de Sica (è il cugino della madre), lui lo sa già.
Prima di diventare un liberalconservatore (così dice di sé), Chris da giovane è stato iscritto al Partito comunista messicano. Quando ha conosciuto Octavio Paz (era il 1988 e Chris aveva ventisei anni; Paz ne aveva settantaquattro, era considerato da tempo il più importante scrittore messicano e di lì a poco avrebbe vinto il Nobel), il loro rapporto si reggeva sull’interesse condiviso per la storia del comunismo (Trockij ha scritto, tra le altre cose, una bellissima Storia della rivoluzione russa). È come se parlando col ragazzo comunista (Chris era anche stato in Unione Sovietica), Paz, che già da tempo era liberalconservatore pure lui, si prendesse il piacere, tipico dei vecchi e degli scettici, di ritornare giovane e illuso. Parliamo della Storia della Rivoluzione russa guardando la scrivania insanguinata e il bagno bicromo di Trockij; poi per contiguità passiamo al Viaggio sentimentale di Šklovskij, e da Viktor Šklovskij a Victor Serge, che, da anarchico, ha scritto il libro più bello che sia mai stato scritto sulla rivoluzione dei bolscevichi, le Memorie di un rivoluzionario. Gli racconto di Carlo, gli dico chi era, gli parlo delle Memorie di un rivoluzionario timido e del Poema a Trotzky cercando sul telefonino la traduzione spagnola, ma ho poca batteria e Trockij in casa sua ha una luce troppo intensa per consentirmi di leggere sullo smartphone il poema che gli è stato dedicato: Carlo Bordini che trascorre otto anni e mezzo di militanza parareligiosa in uno dei tre o quattro gruppi di trozkisti italiani, tutti minuscoli e tutti irrilevanti, rinunciando a ogni altra cosa per fare solo quello, dentro un manipolo di esaltati in anticipo sul Sessantotto, e che il Sessantotto avrebbe spazzato via riformulando la contestazione giovanile in un modo che non contemplava i trozkisti. Gli racconto l’ultima volta che Carlo e io ci siamo visti a cena da Armando, due mesi prima che lui morisse sedato e intubato sotto il casco. Seduti all’aperto, com’era normale in quei mesi, col cameriere che ci veniva addosso spargendo goccioline mentre i disperati che vivevano nelle tende appoggiate alle Mura Aureliane chiedevano l’elemosina senza mascherina a chi mangiava seduto, con la certezza di ottenerla subito purché se ne andassero, Carlo raccontava di quando capeggiò una manifestazione di edili pochi anni prima del Sessantotto. “Gli edili si scontravano spesso con la polizia. Non erano studenti: gli edili menavano davvero. Insomma, ero in mezzo a questa manifestazione dura, durissima, che avevo organizzato io, ma a un certo punto mi ricordai che ci era arrivata l’ingiunzione di pagare la bolletta dell’elettricità per la sede dei trozkisti, e allora mi sfilai, andai a pagare la bolletta. Pensavo solo ‘sennò ci staccano la luce’. Tutte le rivoluzioni cui ho partecipato sono fallite. Che il comunismo sia fallito lo do per scontato; ultimamente però pensavo ai rapporti sentimentali: la coppia aperta è fallita, le comuni sono fallite. Sopravvive ancora l’idea del matrimonio, anche se poi si è diluito (tutti scopano in giro, tutti si tradiscono, si sa). Viviamo nei residui di un mondo che sopravvive”.
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Più tardi, a pranzo (in Messico si pranza a metà del pomeriggio), Chris e io parliamo del PRI, che ha governato il paese del 1929 al 2000, e rappresenta uno dei vertici del surrealismo messicano a cominciare dal nome. Nessun movimento politico moderno è mai riuscito a eguagliare la bellezza dell’ossimoro geniale che dà il nome al Partido Revolucionario Institucional. Nato per superare le divisione interne alle forze politiche che avevano fatto la Rivoluzione messicana (il PRI trova il suo nome inimitabile nel 1946; nel 1938 si chiamava Partido de la Revolución Mexicana; nel 1929, al momento della sua costituzione, Partido Nacional Revolucionario), animato in origine da valori di sinistra, ma non privo di simpatie per la politica sociale del fascismo, il PRI si trasforma presto in un partito di potere sincretista e torbido, la pratica dei brogli avendo sempre fatto parte del suo modo di operare. A un certo punto decise di permettere il pluralismo, ma sempre a patto che il pluralismo non minacciasse il potere costituito. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, quando viene sfidato dalla contestazione giovanile, il PRI reagisce con violenza; con gli anni diventa sempre meno socialista e sempre più liberista. Amico degli Stati Uniti e al tempo stesso in buoni rapporti col Patto di Varsavia, il Messico governato dal PRI era il tramite diplomatico tra il governo statunitense e la Cuba di Castro. Eppure, con tutti i suoi compromessi, le sue violenze e le sue meschinità, questo partito dal nome surrealista ha reso possibile la modernizzazione messicana e impedito che il paese cadesse in mano a una dittatura militare sanguinaria come quelle che hanno segnato il XX secolo latinoamericano. L’apparato di potere che reprimeva gli studenti messicani sparando in piazza, come accadde nell’ottobre del 1968 col massacro di Tlatelolco, era lo stesso che poi accoglieva i cileni e gli argentini che fuggivano da Pinochet o da Videla. È così che Roberto Bolaño diventa uno scrittore messicano. Nel 1990, durante un dibattito televisivo tra intellettuali sul tema della libertà organizzato dalla televisione spagnola (pare incredibile che nel 1990 una televisione organizzasse ancora un dibattito di tre ore fra intellettuali veri), Mario Vargas Llosa definì il Messico del PRI “la dictadura perfecta”; Octavio Paz, che fino al 1968 era stato un ambasciatore dello Stato messicano, ma che si era dimesso dopo il massacro di Tlatelolco, se la prese e puntualizzò in diretta. C’è da dire che uno dei capolavori del PRI fu proprio la gestione degli intellettuali, che il partito al potere sosteneva e ai quali permetteva il diritto di critica, purché non si superassero certi limiti. Interessante che alcune delle figure maggiori della letteratura messicana del Novecento siano stati diplomatici o funzionari (Paz, per esempio); e interessante che lo Stato messicano fosse il proprietario di una delle più importanti case editrici di lingua spagnola del secondo Novecento, El Fondo de Cultura Económica, il cui catalogo assomiglia a quello storico dell’Einaudi. Fatico a capire bene le sfumature e i passaggi, ma mi affascina la natura contorta di questa storia, e in generale la natura contorta della politica quando prova a gestire il potere in mezzo alle contraddizioni, al polimorfismo della vita, e magari diventa altro da quello che era, e si perde scambiando i mezzi con i fini, compromettendosi con prassi criminali adottate in vista di uno scopo che va perduto o si distorce per sempre.
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L’ultima cosa che faccio prima di partire è rivisitare, di giorno, lo Zócalo. Sarebbe stato bene iniziare da qui in realtà, perché ho l’impressione che questa piazza, con la Cattedrale spagnola che sorge sulle rovine del Tempio azteco, compendi tutto ciò che ho visto. Nel museo che contiene le vestigia del tempio distrutto il primissimo pannello didascalico si intitola “La dualidad” e ne parla come del “fundamento en el que los mexicas se apoyaban para explicar y ordenar el cosmo”. Veniamo fatti camminare tra le rovine, in mezzo a sentieri delimitati da tubi di ferro, e infine portati in un edificio nuovo che custodisce tutto quello che gli scavi hanno fatto emergere. Fotografo ogni cosa tranne il Dio della Morte, scolpito mentre si protende con le mani in avanti a ghermire chi gli passa davanti e il fegato rovesciato, l’organo che gli aztechi associavano alla morte, dice la didascalia (“El Blog del Narco” dice che Los Zetas ne amputavano una parte ai loro prigionieri; Roberto Bolaño è morto di insufficienza epatica). È la fine di una giornata lunghissima; sono uscito presto per andare a vedere il Museo di storia messicana camminando molto sotto il sole e attraversando quartieri molto diversi tra loro, per poi finire nel mischione del Centro storico, spingendomi qualche isolato oltre il confine che mi è stato detto di non varcare (Plaza Santo Domingo), giusto per vedere com’è questo wild side.
A una certa ora ho appuntamento con Lari e Fabrizio che vogliono portarmi al Tenampa, ristorante storico dove suonano il mariachi. Ci ritroviamo in un grande stanzone quadrato strapieno; prendiamo posto vicino alla parete, in un tavolo da diner statunitense, e aspettiamo che arrivi l’orchestra che Lari ha ingaggiato per suonare la nostra playlist. Intanto nel locale circolano altre due o tre bande, ciascuna composta da otto-dieci persone, in una cacofonia assoluta. Il mariachi, mi spiegano, è una musica che va bene in ogni circostanza; mi sembra però di capire che il tratto comune, a prescindere dall’occasione, sia l’intensità del sentimento. Le canzoni parlano di lutto e di amore (quasi sempre sfortunato, o non corrisposto, o troncato), di fortuna e delusione, ma la costante, come nel melodramma, è l’esborso passionale. Ed è proprio questo eccesso che io non riesco a tollerare; quando lo vedo negli altri reagisco con una forma di imbarazzo, così come mi imbarazzano i melodrammi o i cori. Stasera l’ignoranza delle parole mi aiuta a fare quello che il mio temperamento desidera, non cantare i mariachi in coro e non bere, come invece si dovrebbe. Però mi piace molto essere qui e osservare, mi sto abituando a questa posizione di occhio assente. Una delle canzoni (è una hit, mi spiegano; Fabrizio l’ha messa nel suo libro) ha un testo leopardiano che dice “no vale nada | la vida la vida no vale nada | comienza siempre llorando | y así llorando se acaba”. In realtà è vero che comincia così, ma non è vero che finisce in questo modo; nella mia esperienza i moribondi giacciono sedati in una specie di dormiveglia stupefatto che è anteriore o successivo a ogni forma di espressione, fino a quando qualcuno, di solito un’infermiera, chiude palpebre che altrimenti rimarrebbero sbarrate. Quando usciamo troviamo altri gruppi che suonano musica nortegna; Ariel, un amico di Fabrizio e Lari che è venuto con noi e che fa il giornalista culturale, mi racconta che un tempo, vent’anni fa, questo quartiere era pericoloso e infrequentabile. Mi racconta anche di quando un gruppo letterario d’avanguardia volle presentare un libro in un locale malfamato della zona, il Bombay, con in testa l’idea che il popolo è comunque buono. Furono derubati con la pistola in faccia; riuscirono a malapena a salvare la vita e i vestiti.
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Parto con molta tristezza; Lari e Fabrizio mi accolgono dopo il check-out in albergo e mi tengono con loro per tutta la giornata. Riesco a salutarli calorosamente vincendo ogni goffaggine: è stato bello.
Sul secondo dei due voli di ritorno, che è completamente pieno, un maschio giovane seduto davanti a me, in diagonale, dall’altra parte del corridoio (io ho un posto C, lui ha un posto D) sfoglia le foto sul telefonino, in modalità aereo, a un metro dal mio sedile. All’inizio sembrano foto di una vacanza con la ragazza (lei sembra un po’ più vecchia ed è seduta davanti a me, cioè dall’altra parte del corridoio rispetto a lui): loro in costume in mezzo ad altra gente, lei in costume sollevata da lui in costume – una vacanza primaverile al mare, da qualche parte. Hanno qualcosa di tipico, tipico di una certa classe media giovanile che prolunga il moratorium dell’adolescenza prima di mettere la testa a posto. Poi però il tizio continua a scrollare le sue foto, e all’improvviso le immagini di lui in costume lasciano il posto alle immagini di lui vestito da donna con le calze a rete, alle foto di lui nudo davanti allo specchio o al primo piano della sua erezione. Sta editando, sta postproducendo il proprio pene. È interessante che non abbia alcun pudore, non tanto per le foto (circolano ormai un paio di generazioni per le quali mandare peni in giro è una cosa normale) quanto per la naturalezza con la quale le edita in un aereo pieno, come se gli altri non esistessero o come se il loro sguardo non contasse. Quando atterriamo e tutti si alzano a prendere il bagaglio nella cappelliera, il ragazzo sta chattando con un uomo a mezzo metro da me che posso vedere tutto. Gli chiede se la sua ragazza gli fa i pompini (pare di no), si offre di farglieli lui; nel frattempo parla con la donna che l’accompagna e che, essendo in piedi davanti a lui, non può vedere lo schermo. Discutono in mezzo alla folla nel corridoio dell’aereo, a voce alta, come se fossero soli (“sei stato tre giorni a parla’ co’ llui invece che co’ mme, perché lui nun pò sopportà che tte vai in vacanza tre giorni, è ‘na cosa tossica”) e viene fuori che lui ha una storia con un quarantenne possessivo. Lei dev’essere un’amica, un’amante o un’ex amante: è stata in vacanza con lui ma sembra essere la confidente, la seconda scelta o la compagna fissa in una coppia bisessuale aperta; ma qualunque sia la natura dei loro rapporti, mi colpisce il contrasto tra l’aspetto del tutto ordinario di questi due e la disinibizione, il casino della loro vita erotica; e prima ancora mi colpisce che i due siano così assorbiti dalle loro passioni che non gliene importi niente dello sguardo altrui. Prendono molto sul serio se stessi e l’attimo presente; hanno capito che oltre a questo non c’è nulla di cui avere rispetto o paura.