La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. 

Queste osservazioni, esposte da Giovanni Falcone in un libro-intervista pochi mesi prima della morte, gli costarono commenti sarcastici e indignati da buona parte dell’opinione pubblica, anche di sinistra. Falcone vuole giustificare la mafia, ne subisce il fascino, si disse. Da buon siciliano, gioca sul paradosso e sul sofisma.

Oggi la situazione in apparenza è ribaltata. La rappresentazione delle mafie e della loro violenza è un ingrediente della società dello spettacolo. Ma il discorso non è molto cambiato. Si tratta pur sempre dell’altro, che si può biasimare in termini etici mentre ci eccita esteticamente. Il boss che mangia cicoria nascosto nel suo covo, il criminale ovviamente “shakespeariano” con la pistola di piatto o il boss transnazionale che emerge dalla Jacuzzi tra arredi hi-tech sono figure rassicuranti, da consumare senza inquietudine.

Poi arrivano le notizie dei libri e dei dvd trovati nel covo di Matteo Messina Denaro, il latitante numero uno di Cosa Nostra (a proposito, come faremo ora che non c’è più un numero uno?), e la reazione dei commentatori è divertita e un po’ stupita. In effetti uno spoglio della biblioteca e della videoteca d’emergenza del boss, insieme magari alla prosa delle sue lettere, ci dice piccole cose di un certo interesse.

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