È il 1974, giusto mezzo secolo fa, e in libreria spunta un tipico prodotto dei tempi: I padri della fallocultura, autrici Liliana Caruso e Bibi Tomasi, prefatrice Gabriella Parca. Marca già male, insomma. Il sottotitolo, un vero e proprio paragrafo, precisa quanto male esattamente: «La donna vista da Moravia, Brancati, Pavese, Cassola, Sciascia, Berto, Buzzati e altri narratori italiani di oggi».
Segue a ruota una collettiva replica sulla vecchia «Fiera Letteraria», che aggiunge nuovi, improbabili compagni di letto: spuntano Carlo Castellaneta, Ercole Patti, Goffredo Parise e, infine, Mario Soldati. Per aggiungere al danno la beffa, commenterà tutto da bordo ring quell’incubo di Edoardo Sanguineti: chi meglio dell’erotopaegnico novissimo per canzonare il «latinloverismo da sottotenente di cavalleria» dei colleghi?
Nella letteratura di marpioni (per quanto siano ben pochi gli scrittori davvero avvenenti in Italia, non siamo mica gli americani) lì rappresentata, il più celebre in quanto tale era, certo, Soldati. Complice sicuramente la pratica del cinema e delle sue millemila attrici (da cui aveva pescato anche la moglie): mamma Magnani e la Loren, poi Lucia Bosé, Silvana Pampanini, la fedelissima Alida Valli…circolavano storielle da pochade, come quella di un Mario che, nascosto dentro un tappeto per spiare una sua beniamina, viene tradito da un altro vizio: l’immancabile toscano acceso.
Ma ben altri sospetti gravavano sul Mario nazionale, per l’Italia crociata: una prima moglie con prole non lontana dal cuore, ma certo dagli occhi, al di là dell’Atlantico. Bottino del pionierismo soldatiano era stata, quindi, una separazione legale in anticipo di decenni sul resto della (sicuramente invidiosa) penisola. America primo amore (1935), il suo titolo più famoso, doveva suonare almeno un poco come uno sberleffo.
Pure, da tempo Soldati contemplava, nella sua mobilissima prosa, ben altre deviazioni dal suo già tortuoso percorso di libertino. Oltre a
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